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Pelé, recensione del film su O Rei

Edson Arantes do Nascimento. per tutti semplicemente Pelé, è da molti considerato il più grande calciatore della storia e senz’altro uno dei più iconografici, in molti paesi simbolo stesso del calcio e della sua essenza più pura. La sua vita è stata la prima vera e propria favola che il futebol ricordi, quella che racconta di un ragazzo nato e cresciuto in povertà e che grazie ad un talento enorme e una ferrea volontà ha saputo diventare il più grande al mondo, protagonista principale della trasformazione del calcio brasiliano, che fino al suo avvento era rispettato ma non certamente temuto.

Logico che una vita come la sua fosse perfetta come soggetto per un film, e anzi quello che stupisce è semmai che si sia arrivati a farlo nel 2016, e forse questo è uno dei motivi per cui questa buona pellicola sceglie coraggiosamente di romanzare la storia nel tentativo riuscito di fare qualcosa di molto diverso da una sterile – per quanto accurata – monografia.

Un omaggio doveroso al più grande

Il nome di Pelé, chiariamoci, non sarà mai dimenticato dal calcio e dai suoi appassionati: che lo si consideri il più grande di sempre, o più semplicemente uno dei più grandi, è innegabile il ruolo che questo fenomeno ha avuto nella storia dello sport più amato al mondo e nella sua diffusione. Si tratta però pur sempre di calcio, uno sport che crea continuamente nuovi miti e se non dimentica i vecchi perlomeno li accantona un attimo.

I fratelli Zimbalist (già autori nel 2010 del pregiatissimo documentario “The two Escobars”) si trovano dunque a dover mediare tra favola e realtà nel tentativo di attrarre giovani e meno giovani, più o meno appassionati di calcio, senza rischiare di deludere e perdere entrambi. Tra le storie di calcio che sono state raccontate in oltre un secolo, del resto, quella di Pelé è probabilmente la più significativa.

Il periodo narrativo scelto è molto preciso e significativo: non potendo narrare una vita lunga e ricca di avvenimenti come quella di “O Rei” in poco più di un’ora e mezzo, ecco che ci troviamo nel periodo che va dal Mondiale del 1950 a quello del 1958. Dal Pelé di dieci anni a quello di quasi diciotto, dunque, e soprattutto dal Maracanaço alla prima Coppa Rimet alzata al cielo da capitan Bellini.

Dal Maracanaço al trionfo

Mentre infatti nell’estate del 1950 al Maracanà si definisce la sconfitta più drammatica mai subita dal Brasile nella sua storia (con buona pace del 1-7 incassato dalla Germania nel 2014) Pelé è solo un bambino tra i tanti di una favela dalle parti di Bauru che gioca con gli amici di sempre con palloni fatti con calzini e capisce solo in minima parte il dramma che si sta abbattendo sul Paese.

Il futebol non è del resto visto benissimo in casa sua, dato che papà Dondinho, pur grande appassionato, ha avuto una carriera inferiore alle aspettative per via di un brutto infortunio ed è per questo finito a fare le pulizie in un ospedale così come la moglie, domestica nelle case dei ricchi bianchi tra cui la famiglia Altafini.

Ed è proprio a casa di questi ultimi che il piccolo Pelé viene a sapere di un torneo locale a cui assisterà anche Waldemar de Brito, noto osservatore del Santos: è una grande occasione, forse l’unica che può capitare in una vita a chi nasce in posti dimenticati da Dio. Inizia così la carriera di Edson Arantes do Nascimento, che tutti chiamano ancora Dico ma che ben presto diventerà Pelé, nomignolo assegnatogli con un certo sprezzo dal grande rivale José Altafini.

Pelé: recensione e trama del film

Un episodio drammatico ne rallenterà l’inevitabile ascesa, che poi culminerà proprio in prossimità dei Mondiali del 1958, quando Pelé e Altafini si contenderanno un posto da titolare nella rincorsa al primo titolo iridato di sempre del Brasile. I personaggi sono fortemente in antitesi, e mentre il bianco di origini italiane si rifà ai suoi avi praticando un calcio scientifico ed “europeo” (che gli vale il soprannome di Mazola, omaggio al capitano del Grande Torino) Pelé basa il suo stile su quella che i tanti africani giunti in tempi antichi in Brasile chiamano jinca.

Fondamentalmente istinto e improvvisazione, lo stile che i brasiliani hanno utilizzato anche nei precedenti Mondiali rimediando però soltanto enormi delusioni. Pelé si trova dunque a combattere per affermare se stesso, quello che davvero è, contro un’opinione pubblica divenuta ormai diffidente verso uno stile considerato poco compatibile con la vittoria, una battaglia dura ma che – lo dice la storia – infine lo vedrà trionfare.

Seguire il proprio io, assecondarlo senza vergognarsene o peggio ancora cambiarlo, è il tema portante del film. Lo si evince da subito, da quando cioè Pelé e i suoi piccoli amici decidono nella finale del torneo giovanile di togliersi le scarpe acquistate appositamente per la finale e giocare a piedi nudi come sempre sono stati abituati a fare e quindi anche più avanti, quando ai Mondiali gli europei devono inchinarsi di fronte a un Brasile che accantona la paura di “giocare da Brasile” proprio grazie al bambino-campione.

Che ha imparato la lezione e trascina i compagni con la classe delle sue giocate e un entusiasmo contagioso. A quello che è il tema principale della pellicola si affianca quello del noto rapporto tra Pelé e il padre Dondinho, vero idolo di periferia ed eroe del figlio sia per i valori tecnici che soprattutto per quelli umani.

L’importanza di essere se stessi

Un rapporto ideale, fatto di amore e pazienza, comprensione, di sogni e riscatto. Va da se che per esaltare questi temi i registi finiscono per calcare spesso e volentieri la mano, esagerando – e a volte persino esasperando – concetti e situazioni che senz’altro, storicamente, erano molto meno forti di come vengono presentati nel film.

Difficile immaginare infatti che il ragazzo avesse davvero tutti contro, difficile rivedere in un ragazzo viziato e geloso un grande campione qual è stato José Altafini. Inimmaginabile pensare che ai Mondiali di Svezia una squadra che poteva presentare Didì, Vavà, Pelé, Garrincha e Zito venisse vista come una compagine improbabile sfavorita contro chiunque, dall’Austria all’Unione Sovietica fino alla finale contro i padroni di casa, che gli Zimbalist presentano come assoluta favorita quando in realtà si trattava di un’ottima squadra composta pur sempre da semi-dilettanti.

Anche il discorso sprezzante che il CT degli svedesi, l’inglese Raynor, riserva agli avversari nella conferenza stampa che precede la finale è qualcosa che non sta né in cielo né in terra e che presenta la Svezia come clamorosamente superiore, quando in realtà godeva di ben poco credito contro una squadra che si era rivelata fortissima.

Espedienti forzati per una favola tra antico e moderno

Si tratta tuttavia di espedienti narrativi necessari, di imprecisioni storiche che però aggiungono molta cinematografia ad un film che alternativamente avrebbe rischiato di essere un semplice docu-film di cui in pochissimi avrebbero sentito il bisogno nel 2016.

Questa scelta controversa viene premiata dalle forti e indovinate tematiche presentate agli spettatori, da riprese azzeccate e spesso spettacolari nei momenti di gioco e da una più che indovinata scelta del cast. Gli interpreti sono tutti davvero sul pezzo, dai due attori che interpretano Pelé bambino e poi ragazzo ai vari Altafini, Garrincha, Zito e Feola (che ha il volto e la classe del grande Vincent D’Onofrio) ed è soprattutto degna di nota la prestazione di Seu Jorge nei panni di papà Dondinho.

Il risultato finale è dunque un film più che soddisfacente, che farà contenti gli appassionati di calcio – a patto che questi chiudano gli occhi sulle diverse imprecisioni – e anche chi il calcio lo mastica poco e di Pelé non conosce a menadito vita e imprese. Non un film sul calcio, ma anche sul calcio.

Fondamentalmente una bella favola che racconta l’importanza di essere se stessi e di credere nei propri sogni. Un film sul calcio che non poteva mancare, e che centra l’obiettivo grazie alla “vera vita romanzata” di un bambino che con quel pallone sapeva fare magie. Edson Arantes do Nascimento, appunto. Per tutti, semplicemente, Pelé.

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