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Tag: anni ’50

Neil Franklin e il sogno sfumato di “El Dorado”

“Vivremo meglio di qualsiasi altro calciatore al mondo!”

Furono queste le parole che Neil Franklin pronunciò non appena sbarcò in Colombia. Parole certo non di circostanza, ma basate su quelli che a tutti gli effetti parevano fatti, solidi e inattaccabili. Colui che nel 1950 poteva tranquillamente essere considerato il miglior difensore al mondo, però, non poteva sapere quanto si sbagliava.

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Julinho, il brasiliano dal cuore viola

“Un’ala può arrivare a Julinho, non oltre”.

Nella sua lunga carriera, che lo aveva visto affermarsi come uno dei più grandi centromediani dell’epoca – escluso dalla Nazionale di Pozzo due volte mondiale solo perché “troppo bravo” – Fulvio Bernardini di fenomenali esterni d’attacco ne aveva visti, basti pensare a nomi come “Mumo” Orsi o Carlo Reguzzoni. Nessuno però superiore a Júlio Botelho, Julinho, il campione brasiliano che il buon Fuffo indicò ai dirigenti del club che stava allenando, la Fiorentina, nell’estate del 1955.

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Sándor Szűcs, il martire dimenticato della Grande Ungheria

Se il campionato ungherese è oggi considerato un torneo minore, scavando nella polvere dei ricordi gli appassionati magiari possono trovare numerose storie di un passato che fu straordinariamente glorioso, e che all’inizio degli anni ’50 rischiò di sconvolgere gli equilibri del calcio mondiale.

Erano gli anni del grande Puskás, di Hidegkuti, di Czibor e Kocsis. Era la squadra che aveva umiliato a Wembley i maestri inglesi e che in quasi quattro anni avrebbe perso solo una partita, purtroppo la più importante, quella che avrebbe potuto davvero cambiare la storia: la finale dei Mondiali del 1954.

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Forse non tutti sanno che…La storia del primo “rigore a due tocchi”

Recentemente Lionel Messi ha riportato in auge un metodo di esecuzione dei calci di rigore decisamente inusuale. Invece di calciare il pallone verso la porta, il campione argentino ha toccato per il proprio compagno Suarez, trasformando il tiro in un passaggio decisivo.

Se a livello regolamentare questa tecnica è ineccepibile, a livello di convenienza presenta invece rischi ulteriori nel caso il compagno (posizionato fuori area) non sia abbastanza reattivo una volta toccato il pallone.

Questo “rigore a due tocchi”, da molti considerato eccessivamente irrisorio nei confronti dell’avversario, è stato probabilmente un omaggio a Johan Cruijff, icona del calcio mondiale e del Barcelona che in questi ultimi mesi sta affrontando una difficile battaglia contro un tumore ai polmoni.

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Obdulio Varela, “El Negro Jefe”

Di una scuola calcistica che univa classe sopraffina e grinta feroce, Obdulio Varela fu perfetto rappresentante di quest’ultima qualità.

Centromediano metodista, era tanto ruvido e aggressivo quando la palla era agli avversari quanto elementare e grezzo quando la sfera se la ritrovava tra i piedi.

Quello che lo rendeva un campione era però il carisma, un carattere da leader di poche parole e molti fatti che ne fece il naturale capitano del Peñarol e dell’Uruguay che si apprestava a tornare – da imbattuto – sulle scene dei Mondiali dopo ben vent’anni.

Una naturale tendenza al comando che gli fece guadagnare il soprannome di El Negro Jefe (“Il Capo Nero”) a causa del colore della sua pelle e la somiglianza nel modo di giocare con il mitico Jefe Nasazzi, capitano dell’Uruguay Campione del Mondo nel 1930.

Aveva trentatré anni quando si svolsero i Mondiali in Brasile; aveva vinto tre campionati uruguaiani e una Copa Amèrica nel 1942 con la Nazionale, e con il passare degli anni aveva preso a interpretare il suo ruolo in modo più difensivo, un libero ante litteram, un difensore capace di impostare più che un vero e proprio centromediano metodista.

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Toni Turek, “Dio del calcio” e eroe della rinascita tedesca

13 luglio 2014, stadio “Maracanà” di Rio de Janeiro. La Germania sconfigge l’Argentina e si laurea campione del mondo.

È la vittoria di un movimento che già da anni domina nel calcio continentale, a sua volta espressione di un’economia fiorente leader nel mondo.

È la vittoria di un gruppo, nel quale però se si vuole trovare un protagonista lo si deve individuare nel portiere Manuel Neuer, assolutamente determinante durante tutto il torneo e che non a caso a fine anno arriverà a giocarsi la vittoria del Pallone d’Oro.

Si, ma quando è iniziato tutto questo?

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Quei giorni a Sanremo tra canzoni, fiori e la “Grande Ungheria”

Se dici Sanremo è naturale che il pensiero corra al Festival della canzone italiana, che qui si svolge dal 1951. Piaccia o non piaccia, rimane un evento seguitissimo da milioni di spettatori, un’importante kermesse che per quasi una settimana ogni anno mette la cittadina ligure – anche nota come “città dei fiori” – al centro della cronaca italiana.

Eppure questa incantevole località, che vanta anche uno dei quattro Casinò presenti in Italia, ha anche un’importante tradizione sportiva.

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Moacir Barbosa, cinquant’anni di solitudine

Il 7 aprile del 2000 lasciava questa terra un campione, che in pochi avevano riconosciuto come tale e che dentro, ormai, era morto da tempo. Un calciatore che aveva visto tutti i successi accumulati in carriera cancellati da un unico, fatale, errore, e che da allora era stato dimenticato dai propri connazionali, dal proprio calcio.

Un calcio, quello brasiliano, che è sinonimo di allegria e che invece un tragico pomeriggio del 1950 diventò tragedia. Maracanaço lo chiamarono in Brasile, “la disfatta del Maracanà”: il colpevole, l’unico imputato del lutto che colpì un Paese intero, fu lui. Moacir Barbosa Nascimento, condannato all’oblio eterno.

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Canhoteiro, “l’altro Garrincha”

Velocità, fantasia e dribbling ubriacanti. E poi assist perfetti, palloni che andavano solo sospinti in rete, oppure tiri che erano una sentenza tanto erano precisi e potenti.

Nel Brasile degli anni ’60 questa descrizione calzava a pennello a Garrincha, “l’angelo dalle gambe storte”, formidabile ala destra del primo Brasile capace di imporsi al Mondiale.

Eppure la stessa descrizione si sarebbe benissimo potuta adattare ad un altro giocatore, un’ala sinistra, idolo della torcida del São Paulo. Il suo nome era José Ribamar de Oliveira, per tutti era semplicemente Canhoteiro, e fu un grandissimo campione presto dimenticato.

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Duncan Edwards, per sempre giovane

La secolare storia del football inglese è colma di leggende, personaggi unici ed irripetibili che dai tempi dei pionieri sono pervenuti fino ai giorni nostri, conservando immutato il loro fascino. Il gigantesco portiere William Foulke, il talento sprecato di Paul Gascoigne e poi George Best, Stanley Matthews, Bobby Charlton, Robin Friday e molti altri ancora, cui non basterebbero centinaia di pagine per raccontarne la storia.

Per molti tifosi inglesi, però, sopra tutti i grandi c’è stato un solo giocatore. “Il più grande” di tutti. Duncan Edwards, un calciatore entrato nella leggenda pur avendo giocato appena cinque stagioni da professionista. Tanto gli bastò per entrare nel cuore dei tifosi inglesi e non uscirne mai più.

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Il Miracolo di Berna, spartiacque tra due ere

Quel 4 Luglio del 1954, i giocatori della Germania Ovest fissavano il campo nei momenti precedenti la partita con ferrea determinazione. Non sarebbero stati carne da macello, ma anzi avrebbero tentato di riscrivere la storia in una partita, “il miracolo di Berna”, che sarebbe entrata nella storia.

Erano ben 9 anni che l’inno nazionale non veniva suonato dal vivo in nessuna occasione, 9 anni da quando il Nazismo era stato sconfitto e in cui il popolo tedesco aveva cercato faticosamente di ricostruire sulle macerie dei bombardamenti alleati.

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