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Tag: italia

Lungarni e vecchie viole

Devo riavvolgere il nastro, lo faccio ogni gennaio. Mio zio Egisto era un omone grande e grosso classe 1935 che abitava in Via Alessandro Manzoni in un appartamento di quei caseggiati austeri intonacati fra il grigio e il bianco che defluiscono nello slargo neoclassico di Piazza Beccaria.

Nel 1989 lavorava alla Sita (Società Italiana Trasporti Automobilistici) ma ormai cominciava a bramare alla meritata pensione dopo una vita passata sui mezzi pubblici. Ogni domenica, o quasi, che la Fiorentina giocava al Comunale mi veniva a prendere alla Stazione di Santa Maria Novella intorno alle 12 dopo essermi fatto un deprimente viaggio ferroviario Siena-Firenze la cui tratta era, e credo lo sia ancora, rimasta invariata, finanche nei vagoni, dai tempi del Granduca Leopoldo.

Questa città è scriteriata mi diceva (mentre con la sua Fiat Ritmo verde bottiglia ci infilavamo nel traffico dei lungarni) dovrebbe avere l’onore di essere ferma da secoli e invece ogni giorno un nuovo senso unico, una nuova direttiva, un nuovo divieto, bah, non ci si capisce più nulla.

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I Leoni di Highbury (di Lorenzo Fabiano Della Valdonega)

I Leoni di Highbury

Passa un anno, l’Italia di Vittorio Pozzo si è appena laureata Campione del Mondo battendo 2-1 la Cecoslovacchia nella finale di Roma con un gol di Angelino Schiavio al quinto minuto del primo tempo supplementare. Grazie a questo successo, ci meritiamo l’onore di andare a giocare a Londra nella tana dei Maestri; tuttavia non è ancora abbastanza per calcare l’erba imperiale di Wembley.

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“Maradona, il Pibe de Oro” – di Raffaele Nappi

3 luglio 1990: a Napoli si gioca la semifinale del Mondiale italiano, quello delle “Notti magiche”. Di fronte i padroni di casa azzurri e l’Argentina di Diego Armando Maradona. Non sarà una partita come tante altre, e in qualche modo segnerà la storia di questa competizione come poche altre gare. La spuntano i sudamericani, che annullano il “fattore campo” grazie all’amore smisurato che i napoletani hanno per Maradona, l’uomo dei miracoli e degli scudetti, che sentono più vicino a loro di quel Paese che spesso finisce per dimenticarsi dei problemi del meridione.

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No Borders League, per un mondo antirazzista

Non sono solito esprimere opinioni personali forti su questo sito, persino a livello calcistico: sono dell’idea che ogni persona al mondo possa avere una sua opinione, e che per quanto questa possa essere diversa dalla mia sia meritevole di rispetto anche se da me non viene condivisa, in quanto figlia di percezioni personali e convinzioni che non possono essere frutto del caso.

Naturale che tutto questo si possa applicare nel valutare la forza di un calciatore, la bellezza di una partita e anche, uscendo un momento dall’ambito pallonaro, per quanto riguarda la qualità di una band musicale o la bontà di un piatto. Discorso ben diverso è quello che riguarda il razzismo, una piaga che purtroppo da sempre dilaga nella nostra società e a cui mai il progresso è riuscito realmente a porre un freno.

Esiste da sempre, ed è naturalmente quanto profondamente sbagliato, in quanto con violenza e ignoranza si permette di giudicare e discriminare intere etnie, interi popoli, come se questi non fossero umani – nel bene e nel male – quanto noi.

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Dino Fiorini e Mario Pagotto, uniti dal calcio e divisi dalla guerra

11 giugno 1933. L’edizione numero 33 del massimo campionato di calcio italiano si avvia alla conclusione e il Bologna, ormai fuori dalla lotta Scudetto, scende in campo al Comunale di Busto Arsizio contro la pericolante Pro Patria. È l’occasione ideale per lanciare una giovane promessa, ed è in quel momento che il calcio italiano scopre il talento di Dino Fiorini.

La sfida si concluderà con un rocambolesco 3-3, ma nonostante una prestazione non impeccabile il giovanissimo (deve ancora compiere 18 anni) Fiorini non ha alcuna paura del futuro. Anzi, affronta i due veterani della squadra, Monzeglio e Gasperi, difensori come lui e titolari apparentemente inamovibili, e li avvisa: “Mettetevi d’accordo, perché presto uno di voi mi lascerà il posto!“.

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“Dammi tre minuti” (Torino-Juventus = 3-2, 1983)

Quella domenica decisi di prendermela comoda, di non partire troppo presto.

Già in nottata era tornata l’ora legale e le lancette si erano mosse inclementi, quasi furtive, in avanti nel quadrante. Inoltre ad aspettarmi ci sarebbe stata una settimana fatta di alzatacce alle cinque di mattina e mi scoppiava la testa solo a pensarci.

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Lo Stadium di Torino, gigante dimenticato (con Antonio Cunazza)

Un impianto enorme, capace di contenere al suo interno 40.000 spettatori e dotato di ogni comfort possibile. Spogliatoi, uffici e locali di servizio, sale indoor interne per altre manifestazioni sportive e riunioni di vario genere. Gallerie, dormitori per atleti e sale buffet. Multifunzionale, capace dunque di ospitare partite di calcio ma anche corse di auto e moto, gare di atletica, parate e rappresentazioni. Un’eccellenza italiana. Un monumento atto a celebrare lo sport in ogni sua forma.

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Perugia 1979, trenta e lode

Dove nascondevate quello specchio?

Quello in cui ogni domenica riflettevate la vostra bellezza e restavate assorti, come rapiti da un estasi partorita da uno strano destino. Quello che sussurrava al vostro orecchio che eravate talmente attraenti da non dover rischiare di cedere al passo audace della gloria ma di limitarvi nella contemplazione dell’unicità del primato.

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Gigi Meroni, ala di farfalla

L’arazzo sembra abbia i contorni particolarmente confusi e invece a guardarlo bene i fili che lo intrecciano sono fissati da una rara combinazione di bellezza e talento, dove la parola bellezza va strappata dalla stretta attualità per riportarla dentro la sua densità semantica primordiale, ossia nella grazia, in quelle note apparentemente dissonanti che regalano una melodia contro cui non può competere la più trionfante espressione del contemporaneo.

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Genoa, you are red and blue

Se qualcuno avesse dovuto dipingere Genova in quel momento, nell’attesa, col sole basso sul mare, avrebbe usato colori a olio per ottenere una pasta lucida e spessa allo stesso tempo.

Avrebbe mescolato il blu e il rosso in una tonalità intensa con cui avrebbe coperto tutto, ma schiacciando forte il pennello sulla tela, per separare le setole e lasciare lunghe strisce biancastre sporcate appena di colore. Allora avrebbe aggiunto ancora del rosso per sfumare quel cielo, assottigliarlo e dilatarlo fino a farlo scivolare lentamente in una tonalità meno accesa.

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Julinho, il brasiliano dal cuore viola

“Un’ala può arrivare a Julinho, non oltre”.

Nella sua lunga carriera, che lo aveva visto affermarsi come uno dei più grandi centromediani dell’epoca – escluso dalla Nazionale di Pozzo due volte mondiale solo perché “troppo bravo” – Fulvio Bernardini di fenomenali esterni d’attacco ne aveva visti, basti pensare a nomi come “Mumo” Orsi o Carlo Reguzzoni. Nessuno però superiore a Júlio Botelho, Julinho, il campione brasiliano che il buon Fuffo indicò ai dirigenti del club che stava allenando, la Fiorentina, nell’estate del 1955.

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Si chiamava Giuliano. Giuliano Fiorini (di Diego Costa)

Il cinno si presento’ alla Virtus con la borsa della Fratelli Rosselli e quella sua faccia strana, un po’ da vecchio, nonostante l’età. Il primo che conobbe, aspettando di cambiarsi, fu Piero Maini. Strani a volte i casi della vita. Giuliano, subito geniale, fu amato/odiato in rossoblu.

Piero era un attaccante nato ma fu battezzato ala tornante, dovette aspettare il momento del distacco definitivo col club professionistico per esprimersi come punta pura, a suon di gol, dal San Lazzaro al Sassuolo (dove ancora lo ricordano) passando per Castel San Pietro. Fiore a 17 anni era il monello irriverente che dribblava Bulgarelli in allenamento il giovedì. E proprio il Bulgaro, passata l’iniziale e superficiale irritazione, lo volle presto in prima squadra.

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