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Valerij Voronin, il campione che morì due volte

Sugli splendori e le miserie del calcio sovietico si potrebbe scrivere un libro intero – e qualcuno lo ha fatto del resto: come è sempre accaduto il potere sfruttò lo sport come straordinario mezzo di propaganda, interna e internazionale, raggiungendo i propri obiettivi grazie a straordinari atleti come ad esempio Lev Jasin, considerato dagli storici il miglior portiere al mondo e unico capace di conquistare il Pallone d’Oro fino a oggi.

Insieme a Jasin giocarono altri straordinari campioni, eppure il nome di molti di loro non è rimasto impresso nella memoria collettiva degli appassionati di calcio; considerati prima di tutto cittadini e lavoratori dello Stato, nessuno di loro ebbe mai il permesso di giocare all’estero, come per molti episodi accaduti durante la storia dell’URSS, in Europa giunsero soltanto informazioni frammentarie e approssimative.

Il calcio sovietico, un mondo a parte

Chi assumeva atteggiamenti giudicati troppo stravaganti, chi tentava di ribellarsi a uno stile di vita imposto dall’alto, andava spesso incontro ad una brutta fine. Fu il caso, ad esempio, di Eduard Streltsov, autentico ragazzo prodigio del calcio sovietico, soprannominato il “Pelé bianco” e capace di imporsi in Nazionale non ancora ventenne.

Il suo carattere ribelle lo portò a vivere un incubo: la prigionia in un gulag siberiano per scontare uno stupro mai avvenuto, uno spiacevole episodio che privò la Nazionale della sua stella offensiva. Unione Sovietica e Torpedo Mosca, il club di cui era la stella, videro sparire la loro stella dal giorno alla notte.

Un colpo terribile soprattutto per la Torpedo, nata come forza proletaria e successivamente identificatasi con l’azienda automobilistica nazionale. La storia di Streltsov è nota tra gli appassionati e merita senz’altro alcune letture, ma oggi non vi racconterò di lui, piuttosto del giocatore che lo sostituì nel cuore dei tifosi: Valerij Voronin.

A scuola da Streltsov

Nato proprio a Mosca il 17 luglio 1939 e cresciuto in una piccola squadra locale, il Kauchuk, Valerij Ivanovič Voronin viene aggregato intorno ai sedici anni alle giovanili di quella che sarà la sua unica squadra in carriera.

I giovani si allenano di fianco alla prima squadra e, come tutti, anche il giovane Valerij resta incantato dal sapere calcistico di Eduard Streltsov, autentico idolo locale: il “Pelé bianco” è di appena due anni più grande di loro, eppure sia il club che il Paese ripongono su di lui enormi aspettative.

Agli occhi di quei ragazzi, Streltsov è un esempio: alla loro età aveva già esordito in prima squadra, l’anno successivo si è laureato capocannoniere del campionato e adesso, compiuti da poco i 18 anni, è arrivato anche l’esordio in Nazionale, condito da una tripletta rifilata alla malcapitata Svezia.

Un talento unico e irripetibile: Voronin, pur se molto dotato, deve invece aspettare la maggiore età per esordire con la maglia della Torpedo. Accade proprio l’anno in cui Streltsov, che rifiuta di passare forzatamente alle squadre di regime, viene rinchiuso nel carcere di Butirka e successivamente imprigionato in Siberia.

Valeriij Voronin, l’eleganza al potere

Siamo nel 1958, e Voronin si trova in una squadra di buon livello ma priva del suo miglior giocatore (“il miglior giocatore russo di sempre fuori dai pali”, lo definirà lo scrittore di football Jonathan Wilson) peraltro appena classificatosi al 7° posto nella corsa al Pallone d’Oro indetta da France Football e che ha visto trionfare il grandissimo Alfredo Di Stéfano.

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Bisogna rimboccarsi le maniche, e Voronin non si tira indietro: non potendo sostituire il campione nel ruolo in campo per via di caratteristiche tecniche diverse – oltretutto nessuno avrebbe potuto farlo, dato che fuoriclasse come Streltsov sono inimitabili – lo fa allora in termini di carisma e dedizione alla causa.

Non si pensi però a un giovane semplicemente volenteroso: nel suo ruolo di regista di centrocampo, Voronin è fortissimo e completo, abile sia dal punto di vista tecnico che tattico. Alla Torpedo serve solo un anno per riprendersi (vince la Coppa di Russia nel 1959) e due per imporsi: è il 1960, i bianco-neri vincono il campionato per la prima volta.

Ai gol provvede la punta Ivanov, servito puntualmente dalla precisa mezzapunta Gusarov, mentre dietro a chiudere ogni varco ci pensano il poderoso centrale di difesa Shustikov e il talentuoso portiere ucraino Rudakov, per molti l’erede designato di Jasin. Difesa e attacco sono uniti, legati, proprio da lui, il giovane Valerij Voronin, a cui l’allenatore Maslov – vero e proprio “guru” della panchina e per molti l’inventore del 4-4-2 e del pressing – affida per la sua completezza la regia della squadra.

Uno spettacolo per intenditori

È uno spettacolo per intenditori, Voronin, la cui eleganza naturale si abbina ad uno straordinario senso tattico. È ovunque, anche se ha appena vent’anni gioca come un veterano, quasi avesse un radar in testa che gli permette di ricevere le informazioni necessarie per trovarsi ad essere sempre nel posto giusto al momento giusto.

Un giocatore, un centrocampista, che in Inghilterra viene chiamato Box-to-Box, cioè capace di districare una situazione ingarbugliata in difesa e un attimo dopo capovolgere il fronte di gioco in attacco, con un lancio preciso oppure con una lunga corsa palla al piede.

Tecnicamente non vale Streltsov. Ma del resto, ovviamente, nessuno può valere Streltsov. Ma è comunque completo nei fondamentali, dotato di un’eleganza innata, e rispetto al grande campione di cui ha preso il posto è dotato di un senso tattico ineguagliabile che gli permette di essere sempre al posto giusto nel momento giusto.. Un faro, impossibile da non scorgere per compagni, avversari e spettatori.

L’Alain Delon russo

Sospiri di ammirazione non solo nei tifosi, ma anche e soprattutto nelle tifose. Voronin è infatti amato dal gentil sesso per il suo bell’aspetto e per l’eleganza innata che mostra sia dentro che fuori dal campo. Oltre ad essere un campione è anche una persona estremamente colta: legge poeti e drammaturghi, frequenta scrittori e attori di cinema e teatro, conosce le lingue straniere, tanto che si occuperà lui stesso di fare da traduttore per i compagni nei rari impegni internazionali che la rigida “Cortina di ferro” concede ai suoi campioni.

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Logico che la Nazionale ci metta poco a notare questo “cittadino e sportivo modello”. Il CT Gavriil Kačalin lo aggrega alla squadra che ha appena conquistato il Campionato Europeo del 1960: i campioni non mancano, il Partito guarda con fiducia ai Mondiali del ’62 dove i sovietici, infatti, si presentano con buone credenziali.

Voronin giostra in mezzo al campo, ben coadiuvato dall’ucraino József Szabó, in una squadra che vanta anche talenti come Netto, Chislenko e Ponedelnik, oltre soprattutto a Jasin, “il Ragno Nero”, il miglior portiere che la storia del calcio ricordi.

L’Unione Sovietica in effetti parte benissimo, si impone nel suo girone – composto anche da Uruguay, Colombia e Jugoslavia – ma cade a sorpresa nei quarti di finale contro i padroni di casa del Cile, che trovano due reti con due autentiche magie da fuori area sfruttando una delle rarissime giornate negative di Jasin.

Il giocatore ideale

Al termine del torneo Voronin viene comunque inserito nella “squadra ideale” della manifestazione, unico sovietico fino a quel momento ad aver avuto tale onore. Ormai, ad appena 23 anni, si parla di lui come di una vera e propria stella del calcio mondiale. E il rispetto che gli tributano gli avversari è notevole: Bobby Charlton lo definirà infatti “uno dei più forti giocatori che ho affrontato”.

Viene inserito anche nella “squadra ideale” degli Europei del 1964, che i sovietici – guidati stavolta da Konstantin Beskov – perdono solo in finale con la Spagna, mentre la sua Torpedo Mosca prova a vincere ancora una volta il campionato, ma nonostante la sua splendida regia ed il suo dare l’anima il successo non arriva.

I club del Partito sono troppo più forti e ben visti, servirebbe un miracolo. Che si materializza nel 1965, quando Eduard Streltsov viene finalmente liberato dal Gulag nel quale è stato rinchiuso per ben sette anni. Non è più il ragazzo di una volta, è un uomo indebolito dalla fame e dal freddo e senza la grinta e il fisico di quando giovanissimo strabiliava il mondo.

Un ragazzo divenuto uomo nel freddo di un gulag siberiano, sopravvissuto soltanto grazie all’ammirazione degli altri detenuti e di alcuni dei suoi carcerieri. Ma è pur sempre Eduard Streltsov, il giovane neanche ventenne che la stampa internazionale aveva già definito “il Pelé bianco”.

Finalmente la gloria

Giocare a calcio è come andare in bicicletta, diceva Nils Liedholm. Impossibile dimenticare come si fa una volta che si è appreso. E infatti Streltsov, rendendosi conto di non essere più capace di segnare gol in splendide azioni solitarie come era avvezzo a fare, si mette al servizio della squadra arretrando il proprio raggio d’azione.

Gioca prettamente da fermo, ma la sua classe gli permette di segnare e soprattutto di dispensare assist fenomenali, palloni che vanno solo spinti in rete. Finalmente Voronin può giocare con il suo idolo d’infanzia, correndo anche per lui e coprendogli le spalle con un fine lavoro di cucitura. Che passa ovviamente sotto traccia rispetto alla classe di Streltsov ma che si rivela altrettanto importante.

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Valerij Voronin (a destra) insieme al grande Lev Jasin

La Torpedo Mosca torna alla vittoria del campionato, le sue stelle sono osannate: per l’ex-prigioniero dei Gulag le porte della Nazionale rimangono però chiuse, mentre nella compagine che si appresta a disputare i Mondiali del 1966 Valerij Voronin è ormai una delle stelle più conclamate.

Nel frattempo si è sposato, formando con la bellissima moglie Valentina una coppia da rotocalco (almeno per quel che si può esserlo nell’Unione Sovietica di quegli anni) ed è finito ancora una volta tra i migliori dieci giocatori europei nella corsa al Pallone d’Oro.

La sfida a Pelé

Nel luglio del 1965 la sua Unione Sovietica sfida il Brasile di Pelé in amichevole. Voronin vuole fare bella figura, studia l’asso brasiliano nei minimi dettagli ed è convinto di poterlo annullare. Talmente convinto da dichiararlo, invitando gli amici di O Rei a restare a casa per non vederlo rimediare la peggior figura della sua carriera.

Il campo però è giudice supremo: il Brasile si impone con un netto 3-0 e Pelé segna una doppietta. All’uscita dal campo Valerij riconosce la sconfitta, anzi: si complimenta sinceramente, affermando che a uno come O Rei dovrebbe essere vietato di giocare tanto è superiore agli altri.

Nonostante il passo falso, però, la sua figura ha fatto il giro del mondo. È un sovietico atipico, e in quanto tale riceve attenzioni lusinghiere dal mondo occidentale: Adi Dassler, il creatore della Adidas, lo vorrebbe come testimone e lo ricopre di regali, grandi club come Inter e Real Madrid sarebbero pronti a fare carte false per ingaggiarlo. Ovviamente, vista la chiusura dell’Unione Sovietica al mondo capitalista, tutto questo è impossibile.

I Mondiali del ’66

I Mondiali sono però un’altra parziale delusione. I sovietici si impongono in un girone che riserva molte sorprese, vedendo passare al secondo posto la sorprendente Corea del Nord, che elimina Italia e Cile, quest’ultimo sconfitto dai sovietici con un secco 2-0 che in qualche modo vendica l’eliminazione patita quattro anni prima.

Valerij Voronin si sdoppia tra centrocampo e difesa, ben distinguendosi, unico tra i convocati della Torpedo campione dell’URSS: a dire il vero ce ne sarebbe un altro, il portiere georgiano Q’avazashvili, ma con Jasin – che ha già eclissato anche Rudakov – in porta ovviamente non giocherà mai.

Proprio da difensore gioca il quarto di finale che vede l’URSS affrontare l’Ungheria. La sua marcatura su Florian Albert – splendido talento che cercherà invano di restituire grandezza al calcio magiaro – è spietata, Voronin giganteggia, guadagnandosi gli attestati di stima di chi assiste alla gara. I gol di Chislenko e Porkujan permettono ai sovietici di guadagnare la semifinale.

Di fronte si trovano la formidabile Germania Ovest di Helmut Haller e Franz Beckenbauer, e sono proprio questi due a segnare le reti che eliminano i sovietici, che perdono poi anche la finale valida per il terzo posto contro il Portogallo del formidabile Eusebio.

Un premio speciale

È un piazzamento finale, il quarto posto, che rimarrà tuttavia il migliore in assoluto per l’URSS e per le varie nazionali che ne deriveranno dopo il crollo del comunismo. Valerij Voronin viene premiato con un piatto d’argento dalla giovane Regina Elisabetta come “il calciatore più elegante del Mondiale”. Si dice che sia affascinata da questo bellissimo sovietico, che gli sorrida a lungo, e in effetti lo sguardo profondo del campione e il suo stile impeccabile superano i confini dello sport.

Nell’anno del Mondiale d’Inghilterra il grande regista Marlen Martynovič Chuciev gli offre una parte per il film “Le piogge di luglio”, ma Voronin rifiuta. Vuole concentrarsi sul calcio, per il cinema ci sarà semmai tempo dopo, una volta appesi gli scarpini al chiodo, anche se il suo sogno è quello di diventare un giornalista internazionale.

Gli anni post-secondo titolo nazionale sono anni tribolati per la Torpedo Mosca, schiacciata dalla prepotente ascesa della Dinamo Kiev, tuttavia c’è tempo ancora per un canto del cigno da parte di Voronin. Guida i suoi alla vittoria della Coppa Nazionale nel 1968, mentre in campionato la Torpedo torna tra le prime piazzando al 3° posto.

Una distrazione fatale

Nessuno può sospettarlo, ma il grande campione ha perso la voglia di giocare. È arrivato al massimo, in patria, e il passo successivo, cioè lasciare l’Unione Sovietica per vivere e giocare all’estero, è vietato. Forse anche per questo inizia a bere, a essere sempre più insofferente alle regole, a presentarsi agli allenamenti e ai ritiri con la Nazionale in condizioni poco raccomandabili. Assonnato, spesso ubriaco.

Valerij Voronin non ha ancora trent’anni e di certo non lo sa, ma la sua carriera sta per interrompersi bruscamente. Sempre più a suo agio tra club privati e vita mondana, viene allontanato dal ritiro della Nazionale per essere uscito senza permesso, e sulla strada di ritorno verso casa avviene l’episodio che cambierà per sempre la sua vita.

Un attimo di distrazione, forse un colpo di sonno, e il campione perde il controllo della sua auto. La vettura sbanda, quindi senza controllo si schianta contro un mezzo proveniente dalla corsia opposta. L’impatto è tremendo, la parte davanti del veicolo finisce disintegrata.

Un incidente che cambia tutto

Sopravvive per un niente, sbalzato via dopo l’urto a causa di un difetto di fabbricazione del sedile. Vivo per miracolo, passa diversi mesi in ospedale “fasciato come una mummia, respirando solamente con un tubo” – come lo ricorda il compagno Shustikov – e i dottori si mostrano da subito scettici su un suo eventuale ritorno al calcio: hanno ragione, perché l’incidente ha cambiato il campione nel fisico e – soprattutto – nella mente.

La moglie lo dichiara fin dal giorno successivo all’incidente, quando si reca a trovarlo in ospedale. È diverso, taciturno, silenzioso, con lo sguardo malinconico. Soffre di frequenti attacchi epilettici. E beve, prima di tanto in tanto, poi spesso, infine praticamente sempre. Il suo volto bellissimo è perduto per sempre, e con esso la sua voglia di vivere. Il collega Beckenbauer lo stima e si propone di pagargli un’operazione chirurgica in Germania, ma ovviamente il governo sovietico non darà mai il benestare.

Dallo stato di “morte clinica” in cui si era ritrovato, il grande campione sembra voler lottare contro la natura stessa. Sopravvive, torna a camminare e poi a correre, causando sospiri di ammirazione nei suoi tifosi. Torna a giocare qualche gara, segna anche un paio di gol, ma presto è chiaro che non è più lo stesso giocatore di prima. Qualcosa si è rotto, qualcosa nella sua anima. E bere non aiuta.

Morire due volte

Valerij Voronin non tornerà mai più in campo, interrompendo la sua carriera nel 1968 non ancora trentenne e nonostante gli sforzi di compagni e allenatore, che gli vogliono bene e che ogni tanto, mentre si allenano, lo vedono fuori dal campo, appoggiato alla rete, come se osservasse la sua vita passata e ora perduta.

“Come se”, poiché in realtà quasi tutti dicono che gli occhi sembrano mezzo addormentati, persi nel vuoto. Come quelli di chi non riesce mai a dormire veramente, tormentato da demoni personali impossibili da sconfiggere.

Sparisce per un po’ dalla circolazione, rimanendo sporadicamente in contatto solo con il suo vecchio allenatore, Yuri Stepanenko. Che prova a parlarci ottenendo però in cambio solo vuote promesse e risate, risate amare, quelle di chi prova sulla propria pelle che la vita, a volte, in un momento può toglierti tutto quello che hai.

Impossibile raccontare la sua vita negli anni successivi al ritiro, semplicemente perché tale non la si può definire. Non è vivere ma sopravvivere, quello che fa l’ex-direttore d’orchestra della Torpedo Mosca. Ciondolando da un bar all’altro, da una compagnia poco raccomandabile a una che lo è ancor meno, prestando soldi a chi non glieli restituirà mai e contraendo debiti che non potrà mai saldare, lo sguardo sempre perso nei ricordi di una vita passata, vuoto, annebbiato dalla vodka.

La moglie, esasperata, ottiene il divorzio, gli amici prima non sanno cosa dire, quindi non sanno più nemmeno dove trovarlo e in quali condizioni. Finisce spesso in qualche ospedale psichiatrico, ne esce rinfrancato e voglioso di ricominciare, a parole, ma dopo poco tempo puntualmente è ancora a bere, tentando di dimenticare quel passato glorioso che non ritornerà.

La tragedia di un uomo solo

Nell’Unione Sovietica di allora i calciatori sono dipendenti statali, cittadini come tutti gli altri, e come tutti gli altri vengono trattati una volta che si spengono le luci della ribalta: Valerij Voronin si ritrova povero in canna, solo e dimenticato. Un modesto istruttore della ZIL, che la seconda moglie Maria vuole lasciare più volte a causa dei suoi eccessi. Qualcosa a cui lui non può credere: e pensare che un tempo ogni donna al mondo era ai suoi piedi!

La sera del 20 Maggio del 1984, Yuri Stepanenko rincontra dopo anni il suo ex-pupillo. Accade allo stadio “Luhzniki” di Mosca, impianto dove il gol più bello di sempre – lo dice un sondaggio – lo ha segnato proprio lui con un prodigioso tiro al volo anni prima.

Voronin è ovviamente ubriaco, l’ombra distorta dell’uomo affascinante e di successo che era quando calcava i campi di calcio, e in compagnia di tre uomini che l’anziano allenatore definirà “sospetti”.

Talmente sospetti da costringerlo a prendere da parte Valerij e chiedergli se li conosce bene, se si può fidare di loro. Voronin ride, l’ormai tristemente consueta risata amara, e dice che sì, li conosce bene, assicura al vecchio mentore che non c’è niente di cui preoccuparsi. Quindi si allontana con loro.

Un finale oscuro

È questa l’ultima volta che viene visto in vita: il mattino successivo il suo corpo viene ritrovato in mezzo a dei cespugli nei pressi dell’Autostrada Varshovskoye, la testa fracassata. Valerij Voronin, il campione che esaltava i tifosi, “l’Alain Delon russo”, è morto.

La causa è un violento pestaggio con oggetti contundenti, motivazione ed esecutori rimarranno sconosciuti. Si pensa che ci siano in mezzo debiti non pagati, o che sia stata una rissa finita male tra ubriachi, ma non si saprà mai niente di più di questo. Avrebbe compiuto 45 anni in un paio di mesi, e i responsabili della sua morte non saranno mai trovati.

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Al suo funerale, che si svolge a poche centinaia di metri dalla fabbrica dove nacque la Torpedo Mosca, sono presenti gli ex-compagni e i dirigenti, in un’ultima struggente identificazione tra Voronin e quella che è stata la sua unica squadra, il suo unico grande amore, portatogli via dal destino.

Altro che cittadino modello

Negli anni successivi verrà fuori che Voronin non era certo il cittadino modello che il partito aveva dipinto. Recitava un ruolo, ma in realtà sognava di vivere all’estero, era in possesso di libri e dischi “stranieri”, proibiti. Non capiva perché il mondo fosse così diviso, perché il partito imponesse regole così rigide. Frequentava anarchici e rivoluzionari.

Nel momento della morte, però, chi lo ha sfruttato per tutta la vita per poi dimenticarlo non può raccontare tutta la verità. Ed è per questo che il grande centrocampista della Torpedo e della Nazionale, idolo di milioni di russi, viene salutato come un grande eroe che si è sempre battuto per la causa sovietica.

La vita di Valerij Voronin finisce così, tra menzogne e lo sguardo pietoso dei pochi che non lo hanno dimenticato. Anche se molto probabilmente l’ex “Alain Delon russo”, chiamato così per la sua eleganza e per il bell’aspetto, era già morto molti anni prima. In quel maledetto incidente del 1968 che aveva cancellato, improvvisamente, il suo futuro.

“Valerij Voronin era il nostro Alain Delon. Anzi, ancora meglio, perché a differenza di Delon aveva gambe forti e ben tornite.”

Aleksandr Petrov, scrittore

Valerij Ivanovich Voronin

  • Nato a: Mosca (Russia) il 17 luglio 1939
  • Morto a: Mosca (Russia) il 19 maggio 1984
  • Ruolo: centrocampista
  • Squadre di club: Torpedo Mosca
  • Trofei conquistati: campionato sovietico 1960, 1965, Coppa dell’URSS 1960

SITOGRAFIA: 

  • Jackson, Alex (26/11/2010) Russian Icons: Valery Voronin – the Tragedy of a Man who almost wasn’t there, www.footymatters.com
  • Annin, Alexander (14/05/2014) The Rise and Fall of a Soviet Football Star, www.themoscowtimes.com
  • (31/07/2015) АЛЕКСАНДР НИЛИН: “АРМИЯ АРМИЕЙ, А ЦК – ЦЕКОЙ”, – СКАЗАЛ СТРЕЛЬЦОВ” (tradotto) www.sports.ru
  • Repin, Leonid (12/07/1999) Комсомольская правда (tradotto) reperito su www.rusteam.permian.ru
  • Borisova, Anastasia (22/04/2021) «Он был Аленом Делоном нашего футбола» Почему главный секс-символ советского спорта умер в нищете и одиночестве (tradotto) www.lenta.ru

  

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