martedì, Settembre 10, 2024

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Arthur Wharton, il “colored” che rivoluzionò il football

La domanda che si fecero i membri del comitato a capo del Darlington Football Club nell’estate del 1885, mentre il giovane Arthur Wharton si presentava al campo d’allenamento per mostrare a tutti le sue qualità di footballer, aveva una risposta tutt’altro che scontata.

“Può un nero giocare al football?”

In un’epoca infatti in cui persino l’Encyclopædia Britannica definiva “the Negro” come un essere “mentalmente inferiore al bianco” per via “dell’impossibilità del cervello di svilupparsi completamente a causa della particolare forma del cranio”, in un periodo in cui l’Impero Britannico invadeva l’Africa per aumentare le proprie ricchezze senza curarsi di chi quelle terre abitava – ed era evidentemente “sacrificabile” in nome di Sua Maestà la Regina – a tutti doveva sembrare ben strano che quel giovane ed energico ragazzo di colore avesse deciso di cimentarsi con il pallone.

Il football, infatti, non richiedeva soltanto quelle qualità fisiche che i britannici erano costretti a riconoscere a chi proveniva dall’Africa, ma anche classe, eleganza, acume e capacità tecniche che non era certo possibile sperare di riscontrare in qualcuno che, agli occhi del cittadino britannico medio, non era altro che un primitivo. E non era certo un caso che mai se ne fosse visto uno su di un campo di calcio, ad esclusione del solo Andrew Watson, gigante d’ebano scozzese capace di annichilire l’Inghilterra pochi anni prima.

Watson, del resto, non rappresentava altro che l’eccezione che confermava la regola. E poi era comunque “quasi un britannico”: il padre scozzese lo aveva portato con se in Inghilterra da bambino, e alla morte gli aveva lasciato abbastanza soldi da poter studiare nelle migliori scuole del Paese. Amateur nella più pura accezione del termine, si era distinto per eleganza e fiuto per gli affari, guadagnandosi il rispetto degli appassionati di calcio tanto per le eccellenti prestazioni in campo quanto per il suo giocare per pura passione.

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Arthur Wharton era invece molto diverso da Watson. Nato a Jamestown, nell’attuale Ghana, era figlio del Reverendo Henry Wharton, un pastore di Grenada (all’epoca colonia dell’Impero Britannico) e della di lui moglie, Annie Florence, principessa della famiglia reale Fante del posto. Divenuto uomo si era recato in Inghilterra su espresso desiderio del padre, che voleva che il figlio ripercorresse le sue orme di missionario metodista, ma presto la vita mondana e i precoci successi nello sport avevano conquistato il cuore del giovane Arthur più della teologia.

Si era scoperto eccellente atleta, corridore instancabile e dotato di una vitalità che gli permetteva di gettarsi in qualunque sfida, in qualunque disciplina. Ecco perché si era presentato sul campo del Darlington, che sorto appena un paio di anni prima stava ancora cercando di reclutare qualche buon talento locale per tentare il passaggio al professionismo.

A chi lo osservava volare da un palo all’altro della porta, ai tempi costituita appena da due sottili pali e una traversa improvvisata, non parve possibile che un nero fosse capace di tanto. I presenti strabuzzavano gli occhi mentre Wharton intercettava i palloni che gli venivano scagliati contro in rapida successione, arrivando su ognuno di essi grazie a scatti repentini, riflessi straordinari e una ferma fede nelle proprie qualità.

Il sogno dei Lilywhites

Non solo Arthur Wharton entrò in squadra, ma ne fu da subito uno dei punti di forza, distinguendosi al punto di attirare l’interesse di alcuni club professionistici: al termine di una sfida persa contro il Preston North End fu avvicinato dal segretario di questi ultimi. Billy Sudell era stato il maggior promotore dell’appena avvenuta legalizzazione del professionismo, e intendeva costruire una squadra formidabile, che avrebbe scritto la storia. E se i suoi “Lilywhites” potevano vantare a difesa della propria porta nientemeno che Billy Rose, già portiere della Nazionale, quel giovane portiere di colore lo aveva davvero colpito e non intendeva lasciarselo sfuggire.

Lo stesso fu per Arthur Wharton: il Preston North End aveva grandi piani, e si trattava comunque di una realtà calcistica ben più grande e consolidata del modesto Darlington, così nel 1886, poco più che ventenne, si trasferì al club che si apprestava a dominare il football professionistico inglese.

Fu nello stesso anno che, mentre si dedicava alla sua altra grande passione, la corsa, Arthur Wharton divenne l’uomo più veloce del mondo vincendo l’annuale corsa sulle 100 yarde, organizzata dalla Amateur Athletic Association, con l’incredibile, per l’epoca, tempo di 10 secondi. Arthur aveva sempre corso veloce, per guadagnare qualche soldo e per farsi un nome in un ambiente dove spesso era costretto a partire “ad handicap”, dopo gli altri, come colpevole di essere troppo veloce e – naturalmente – di colore.

Corridore straordinario, avrebbe conquistato il titolo di “uomo più veloce del mondo” per tre anni consecutivi, lanciando lo stile che poi sarebbe stato ripreso da tutti i più grandi velocisti (come ad esempio Jesse Owens) che prevede numerosi quanto rapidi piccoli passi in luogo delle ampie falcate utilizzate dagli sprinter dell’epoca. Il tutto, ovviamente, senza alcun allenamento professionale ma solo grazie a un eccellente mix di intuito e talento naturale.

Nel Preston North End Arthur Wharton divenne ben presto un personaggio noto per il suo modo particolare di interpretare il ruolo di portiere. In un’epoca in cui tutti infatti stavano ben saldi sulla riga di porta e respingevano il cuoio con i pugni appena possibile, Darkie” – come presto fu soprannominato – se ne stava accucciato in un angolo mentre gli avversari avanzavano, per poi prodursi in balzi tanto repentini quanto prodigiosi che lasciavano a bocca aperta sia gli avversari che il pubblico.

Vero showman del calcio dei pionieri, era solito divertire gli spettatori, fingendo disinteresse per la gara nelle certo non rare occasioni in cui i compagni dominavano gli avversari, per poi scattare come una molla quando il pallone tornava nei suoi paraggi, atteggiamento significativo di una personalità unica, che cercava in ogni modo di spiccare lungo i 90 minuti di gioco.

Il portiere-clown

Il pubblico rideva divertito del proprio “negro keeper“, e Wharton sembrava ritenere che il modo migliore per ingraziarsi i tifosi fosse quello di essere eccentrico, istinto che comunque aveva naturale dentro di se: per questo aveva rinunciato alle corse a tempo pieno, per avere le platee numerose che solo il calcio poteva dare.

Per lo stesso motivo aveva scelto il ruolo di portiere, il più unico in questo sport. Un ruolo che riscrisse facendo vere e proprie follie, come arrampicarsi sulle appena installate traverse oppure bloccare i tiri avversari con le gambe, bilanciandosi con le braccia sulla traversa: un gesto straordinario che un cronista presente ebbe persino difficoltà a raccontare, spiegando come Wharton avesse così agilmente evitato ben tre avversari finiti malamente nella porta nel vano tentativo di sottrargli il pallone.

“In un match tra Rotherham Town e Sheffield Wednesday giocato all’Olive Ground vidi Wharton saltare, reggersi alla traversa, agganciare il pallone tra le gambe e causare la rovinosa caduta in rete di tre attaccanti che intendevano caricarlo. Non ho mai più visto una parata simile, e ho seguito il calcio per oltre cinquant’anni!”

Coraggioso fino all’eccesso, in un’epoca in cui la carica sul portiere non solo non era sanzionata ma addirittura considerata tattica lecita e consigliata, invece di respingere la sfera preferiva bloccarla per poi schivare agilmente gli arrembanti avanti avversari nello stile del rugby, aiutandosi in questo gesto con un paio di guanti di gomma che fu il primo di sempre ad utilizzare, e che sarebbero divenuti di uso comune solo molti decenni dopo.

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Non sapremo mai quanto, in questi atteggiamenti eccentrici, influisse il carattere esuberante e quanto il bisogno di farsi accettare da un mondo, quello del football, che a differenza degli altri sport continuava tanto a sedurlo quanto a respingerlo. Certo è che, dopo essere stato uno dei protagonisti della cavalcata in FA Cup del 1886/1887, primo anno ad alti livelli per il Preston di Sudell, Wharton fu il capro espiatorio per la clamorosa sconfitta in semifinale che i Lilywhites patirono contro il West Bromwich Albion.

Ignorando l’assenza in difesa del fenomenale capitano Nick Ross, non menzionando un arbitraggio che fu sospettato essere di parte – il direttore di gara, Sir Francis Marindin, era il presidente della FA e odiava il professionismo che il Preston, più di tutti, rappresentava – giornali e gran parte dei tifosi accusarono della debacle il solo Wharton, certamente non irreprensibile ma non più colpevole di altri compagni.

Tra i pali, dissero i cronisti, “non c’è posto per un’allodola”, riferendosi al suo modo di fare stravagante. E aggiunsero che forse “questo paté Darkie” aveva confuso un po’ tutti, e che una grande squadra come il Preston North End avrebbe dovuto cercarsi un portiere vero. Tradotto: nel football non c’è posto per i neri.

Fu questo il momento in cui il football vittoriano respinse il suo primo eroe di colore, che successivamente si propose volontario per prendere parte alla partita che una selezione di Sheffield avrebbe giocato proprio contro il Preston North End per rendere omaggio al grande idolo cittadino, “the Sheffield Dodger” Billy Mosforth. Fu un’altra prestazione poco fortunata: il desiderio di rivalsa e l’innata voglia di strafare portarono Wharton a compiere molti errori, gli ex-compagni non ebbero pietà e lo infilarono ben 8 volte. A fine gara fu costretto a fuggire di corsa, il pubblico inferocito che intendeva linciarlo.

Per la delusione decise di dedicarsi nuovamente all’atletica, distinguendosi nuovamente nella corsa e nelle allora comuni gare di ciclismo con triciclo: in una di queste percorse le 12 miglia che separano Blackburn da Preston in appena due ore, un tempo straordinario che sarebbe stato persino inferiore se non fossero arrivate alcune brusche cadute dovute al mezzo, inadatto alle gare di velocità.

Una scelta, quella di dedicarsi allo sport, che gli alienò la famiglia: Arthur Wharton non avrebbe mai più rivisto il padre Henry, che dopo avergli pagato gli studi fu estremamente deluso dalla scelta del figlio di “rinunciare alla fede” per inseguire gloria e denaro, valori terreni che il figlio aveva scoperto vivendo in Inghilterra.

Chissà quale fu il sentimento dominante, dei tanti che provò, che lo fece tornare al calcio nel giro di un paio d’anni. Forse sentì la mancanza del boato della folla, o forse solo dei soldi che il professionismo garantiva. A noi piace pensare romanticamente che fu la consapevolezza di aver subito una grave ingiustizia, di essere stato “condannato” solo per via del colore della pelle, che fu il desiderio di riscattarsi. Nel 1889 firmò per il Rotherham Town, primo calciatore di colore a firmare un contratto professionistico: ma un vero riscatto, sul campo, non sarebbe mai arrivato.

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Un talento mai espresso

Arthur Wharton fu calciatore fino al 1902, quando chiuse a quasi quarant’anni la carriera nello Stockport County dopo numerose quanto sfortunate esperienze. A causa di un declino cominciato precocemente, e che molti attribuivano alla scarlattina, non riuscì mai a imporsi né nel Rotherham Town né successivamente allo Sheffield United.

Qui fu riserva del leggendario William “Fatty” Foulke, ma giocando un pugno di gare nell’inusuale ruolo di ala destra divenne il primo calciatore di colore capace di giocare nella massima divisione inglese. Successivamente si trasferì allo Stalybridge e all’Asthon North End, club che puntavano su di lui (nell’Ashton fu addirittura capitano e centravanti) ma che non sapevano fare bene i propri conti, dato che fallirono nel giro di pochi mesi.

Mentre gli anni passavano, le prestazioni di Arthur Wharton peggioravano sempre più. Forse per via dell’età, certamente per i mali che minarono il fisico di quello che una volta era “l’uomo più veloce del pianeta”. La scarlattina era stata solo un’avvisaglia, mentre ben più evidenti furono i dolori e la mancanza di fiato conseguenti a quella che poi si sarebbe scoperto essere sifilide.

Lo stesso talento che aveva mostrato nello sport – dove si distinse anche nel cricket, facendo registrare prestazioni atletiche paragonabili a quelle dei giocatori di oggi – non lo mostrò nella gestione degli affari e neanche nella cura di se stesso: aprì e chiuse tre pub e un tabaccaio nel giro di pochi anni, ricavandone solo una fortissima dipendenza dall’alcol da cui non sarebbe mai guarito e che certo non aiutò le sue precarie condizioni di salute.

Quando tornò a Darlington, dove tutto era iniziato, aveva quasi cinquant’anni e un disperato bisogno di soldi. Per questo accettò il durissimo lavoro della miniera, che ne minò oltremodo il fisico già malandato.

Ogni giorno, per più di quindici anni, Arthur Wharton discese la miniera senza la certezza di tornare in superficie, lo fece per un tozzo di pane e nella completa indifferenza di colleghi che, se seguivano il football, ammiravano le gesta di quei nuovi eroi che questo magnifico sport riesce sempre a produrre, e che gettano inevitabilmente oblio su chi li ha preceduti.

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In memoria di Arthur Wharton

Morì il 12 dicembre del 1930, allo Springwell Sanitarium in cui era stato ricoverato, stroncato da un epitelioma e dalla sifilide. Aveva da poco compiuto 65 anni, da tempo immemore l’ombra stanca e malmessa dello splendido atleta che era stato in gioventù. Un eroe dimenticato, distrutto dalla propria grandezza e dal fatto di essere nato in un’epoca sbagliata.

Il suo ricordo sembrò scomparire con lui, sepolto in una tomba senza nome che soltanto dopo più di mezzo secolo sarebbe stata onorata dal mondo del calcio con una lapide commemorativa che lo ricorda così.

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In memoria di Arthur Wharton.

Corridore da record mondiale e primo calciatore professionista di colore.

Un atleta che “correva come un treno espresso a pieni motori dall’inizio alla fine”.

Il portiere dal ‘pugno prodigioso’ che si accucciava nell’angolo della propria porta

fino all’ultimo momento per poi gettarsi nell’azione compiendo fantastici salvataggi.”

Una sua statua è presente nel quartier generale della FIFA a Zurigo, la sola presente nella casa di uno sport che pure ha avuto tra i suoi protagonisti tanti straordinari campioni. L’unica vittoria, postuma, di una carriera avara di soddisfazioni ma che oltre un secolo dopo il suo ritiro ha permesso a Wharton di ergersi a simbolo della lotta al razzismo, un sentimento vergognoso che nel calcio, grazie al suo ricordo, mai riuscirà a trovare spazio.

Soccer - Arthur Wharton Statue Unveiling - St. George's Park


FONTI:

  • www.arthurwharton.info
  • Bloom, Dan (04/07/2014) How Britain’s first black professional footballer who moved to the UK from Ghana signed for Rotherham in 1889 but ended his life as a destitute miner, Daily Mail
  • Amos, Owen (16/10/2014) Arthur Wharton: the world’s first black professional footballer, BBC

Il disegno che apre questo articolo è opera di Sara Provasi.

PIONIERI DEL FOOTBALL – STORIE DI CALCIO VITTORIANO (1863-1889)

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Simone Cola
Simone Colahttps://www.uomonelpallone.it
Amante del calcio in ogni sua forma e degli uomini che hanno contribuito a scriverne la leggenda

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