Robin Friday, il più grande calciatore che non avete mai visto

Britannico. Talento superbo. Un innato istinto autodistruttivo. Problemi con alcol e droghe.

Quasi qualunque appassionato di calcio, di fronte a questi quattro indizi, potrebbe essere tentato di fare il nome di George Best, grandissima ala nordirlandese del Manchester United, sul quale tantissimo è già stato scritto.

Eppure, per alcuni tifosi inglesi, quello di Best non sarebbe l’unico nome a venire in mente.

Anzi, qualcuno potrebbe raccontare la storia di un altro calciatore che ha vissuto pienamente la carriera di Best, superandolo addirittura in diverse di queste sfaccettature. E certamente troverebbe opportuno fare il suo nome, che a dispetto dell’enorme talento non ha mai giocato nella massima serie, né ovviamente ha vestito la gloriosa maglia della Nazionale.

Un calciatore che aveva certamente tutte le possibilità per farcela, ma che si è bruciato in appena un lustro diventando leggenda. Alcuni appassionati di calcio farebbero il nome di Robin Friday, “il più grande calciatore che non avete mai visto”.

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Il Miracolo di Berna, spartiacque tra due ere

Quel 4 Luglio del 1954, i giocatori della Germania Ovest fissavano il campo nei momenti precedenti la partita con ferrea determinazione. Non sarebbero stati carne da macello, avrebbero tentato di riscrivere la storia.

Erano ben nove anni che l’inno nazionale non veniva suonato dal vivo in nessuna occasione, nove anni che il Nazismo era stato sconfitto e che il popolo tedesco aveva cercato faticosamente di ricostruire sulle macerie dei bombardamenti alleati.

Era una squadra, quella Germania Ovest, arrivata alla Finale della V^ Edizione della Coppa del Mondo un po’ a sorpresa: eppure poteva contare su alcuni fuoriclasse, su un gioco solido e pratico e soprattutto sulla ferrea volontà tedesca, che porta questo popolo a non arrendersi mai, a dare sempre il 101%.

E poi pioveva, e la pioggia era “il tempo di Fritz Walter”, il capitano di quella Germania, che si esaltava durante gli acquazzoni perché avendo contratto la malaria da piccolo era rimasto per sempre infastidito dal sole.

Insomma, c’era fiducia. Anche se poi c’erano anche gli avversari.

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Nii Lamptey, il Pelé perduto

Molte qualità servono per affermarsi nel calcio. Spirito di sacrificio, predisposizione fisica, capacità tattica e conoscenza dei fondamentali, unite a un po di fortuna, possono portarti ad essere un buon giocatore.

Ma senza il Talento, quello con la T maiuscola, non sarai mai un fenomeno. E’ il talento, una qualità innata, a fare la differenza tra essere un buon calciatore ed una stella mondiale. Il talento puro, quello che non si insegna, quello che non si spiega.

Nii Odartey Lamptey di Talento ne aveva da vendere. Eppure, dopo un inizio sfolgorante, la sua carriera è diventata via via sempre piu’ tortuosa, sempre piu’ lontana dai percorsi calcistici che contano, fino a fare sbiadire il suo nome, che oggi è conosciuto da pochi appassionati.

Questa è la storia di un ragazzo che da piccolo superò mille difficoltà grazie al suo talento ma che poi non riuscì a diventare un uomo, finendo per essere risucchiato nella periferia estrema del pallone. Un ragazzo che, però, non si è mai arreso.

Meteora o sopravvissuto? Questa è la storia di Nii Lamptey.

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Abdon Porte, “il fantasma del Parque Central”

Nel calcio le bandiere non scompariranno mai. I soldi potranno comprare qualunque cosa, persino la felicità; talvolta avranno il potere di addestrare i giocatori al ruolo di trepidi soldati mercenari all’interno di una guerra combattuta fra società calcistiche. Il fenomeno odierno del calciomercato ha sicuramente avvalorato con forza questo assioma moderno.

La storia dimostra, però, che le cose possono andare diversamente, perché i calciatori sono esseri umani e, in quanto tali, possono amare una squadra o un club, al punto tale da un volersene mai separare.

È il caso di Zanetti dell’Inter, Del Piero della Juventus, Giggs del Manchester United, di Matt Le Tissier, “Dio” di Southampton: per non parlare del pittoresco Sait Altınordu, bandiera per 27 stagioni del club da cui prese il proprio cognome.

Ma se il fenomeno delle bandiere è vivo tutt’oggi, in un momento in cui i calciatori sono trattati come celebrità professioniste superpagate, immaginate cosa poteva essere un tempo, quando chi giocava lo faceva solo ed esclusivamente per passione, per l’urlo della folla.

La storia del calcio degli albori abbonda di giocatori che hanno vissuto per la propria squadra. Qualcuno è anche morto per onorare la propria bandiera, per servire la propria fede. E quella che state per leggere è la storia di uno di loro.

Questa è la storia di Abdon Porte, “il fantasma del Parque Central”.

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Quattro storie di calcio e politica

Il calcio e la politica sono due cose molto diverse che però, nel corso del secolo di storia di questo sport, hanno avuto numerosi incroci.

I più famosi regimi del mondo hanno sempre visto infatti il calcio come un mezzo di propaganda, interferendo con esso.

Queste sono quattro storie in cui la politica è entrata prepotentemente, spesso tragicamente, nella vita dei calciatori.

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Il fantastico viaggio di Dale Tempest, il Marco Polo del calcio

Questa è la storia di un buon calciatore che, quando ancora nessuno nel calcio aveva ancora mai usato l’abusata frase “scelta di vita”, decise di lasciare il calcio occidentale per diventare un idolo delle folle di un paese asiatico, con cui strinse un rapporto unico.

Un centravanti che credeva di aver perso il treno giusto per la gloria, ma che ha saputo non perdersi d’animo e prenderne subito un altro.

Un salto nel buio che lo ha portato a essere l’idolo calcistico di un intero Paese, così lontano e diverso da quello dove era nato.

Questa è la storia di Dale Tempest.

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Bert Trautmann, l’Uomo di Ferro eroe di due mondi

“Ci sono stati due soli portieri di classe mondiale.
Uno era Lev Yashin, l’altro era il ragazzo tedesco che giocava a Manchester.
Bert Trautmann.”

(Lev Yashin, primo ed unico portiere a vincere il Pallone d’Oro)

Se qualcuno avesse detto a Bert Trautmann, giovane soldato tedesco prigioniero in Inghilterra al termine della Seconda Guerra Mondiale, che Albione sarebbe diventata la sua nuova casa, probabilmente lui avrebbe pensato ad uno scherzo.

Se poi gli avessero detto che non solo quella sarebbe stata la sua nuova casa, ma che addirittura avrebbe avuto un posto immortale nella galleria degli eroi di sua Maestà, e grazie al calcio, avrebbe pensato che non era uno scherzo.

Era delirio.

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Joe Gaetjens: il “Miracolo sull’Erba” e il gol che gli donò l’immortalità

Quel tiro da poco più di 20 metri di Walter Bahr è ben calciato ma innocuo: Bert Williams, accreditato come uno dei migliori portieri dell’epoca, non potrà essere battuto così.

E infatti rapido si muove, pronto al tuffo che sventerà quell’assurdo e dilettantesco tentativo.

Quand’ecco che dal nulla spunta Joe Gaetjens, che si tuffa e di testa devia il pallone quel tanto che basta. Williams è sorpreso, la palla lentamente rotola verso la rete.

È gol.

Il suo autore è a faccia in giù nell’erba, forse neanche immagina di aver segnato una delle reti più importanti nella storia del calcio.

È un momento storico, è il Mondiale del Brasile, anno 1950.

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Jorge Washington Caraballo, “meglio perdello che trovallo”

Nella stagione 1982-83 il Pisa Calcio torna in Serie A dopo 13 anni: si sono da poco riaperte le frontiere per gli stranieri nel nostro calcio, ed è così che il Presidente Romeo Anconetani, personaggio pittoresco ma grande intenditore di calcio, decide di rinforzare la squadra con ben due stranieri.

Il primo è il danese Klaus Berggreen, discretissima ala che parteciperà anche a due Campionati Europei e ad una Coppa del Mondo con la sua Nazionale e giocherà anche nella Roma e nel Torino.

Il secondo, invece, è il misconosciuto mediano uruguaiano Jorge Washington Larrosa Caraballo. Pur giocando appena 7 partite in Italia, entrerà nella storia della società come il più pittoresco ed improbabile calciatore che ne abbia mai vestito la maglia.

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Arpad Weisz, la gloria e l’oblio

C’era una volta un discreto giocatore di calcio che, una volta appese le scarpette al chiodo, diventò il miglior allenatore d’Italia: introdusse l’organizzazione tattica laddove prima era tutto un esercizio di tecnica, scrisse un manuale che ottant’anni dopo suonerebbe ancora attuale, scoprì il miglior calciatore della storia italiana.

Eppure sparì, inghiottito dalla follia dell’Olocausto.

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Ali Dia, professione impostore

La storia del calcio è piena di giocatori sopravvalutati, da cui ci aspettava sfracelli ma che per un motivo o per l’altro non hanno saputo realizzare le aspettative che gli esperti avevano intravisto in loro.

Problemi fisici, problemi caratteriali, problemi tattici o di ambientamento: molti possono essere i motivi per cui un calciatore brilla solo un momento, un attimo.

Sono le meteore, giocatori che magari hanno brillato per pochi istanti e che poi non hanno saputo confermarsi.

La storia di Ali Dia, tuttavia, non può essere inserita in questo gruppo. Non fu una meteora, bensì un vero e proprio impostore che, incredibilmente, riuscì anche a giocare nella prestigiosa Premier League Inglese.

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