Non sono solito esprimere opinioni personali forti su questo sito, persino a livello calcistico: sono dell’idea che ogni persona al mondo possa avere una sua opinione, e che per quanto questa possa essere diversa dalla mia sia meritevole di rispetto anche se da me non viene condivisa, in quanto figlia di percezioni personali e convinzioni che non possono essere frutto del caso.
Naturale che tutto questo si possa applicare nel valutare la forza di un calciatore, la bellezza di una partita e anche, uscendo un momento dall’ambito pallonaro, per quanto riguarda la qualità di una band musicale o la bontà di un piatto. Discorso ben diverso è quello che riguarda il razzismo, una piaga che purtroppo da sempre dilaga nella nostra società e a cui mai il progresso è riuscito realmente a porre un freno.
Esiste da sempre, ed è naturalmente quanto profondamente sbagliato, in quanto con violenza e ignoranza si permette di giudicare e discriminare intere etnie, interi popoli, come se questi non fossero umani – nel bene e nel male – quanto noi.Sono questi i pensieri che mi accompagnano mentre percorro Milano per raggiungere Affori, il luogo dove si svolgerà la terza giornata della “No Borders League” organizzata dal mio amico Gian Marco Duina. Penso a come potrò raccontare certe emozioni, e condividere certi messaggi, senza espormi, e penso poi che me ne fregherò, che lo farò senza giri di parole perché davvero il razzismo non ha ragione di esistere. Non lo ha mai avuto, e a maggior ragione non dovrebbe averne nel 2017.
Il razzismo nel calcio ha radici lontane: in Brasile, fino a metà degli anni ’30, ai neri non era permesso di giocare con i bianchi, e quelli che comunque decidevano di farlo si prendevano i propri rischi, consapevoli che arbitri e pubblico avrebbero utilizzato due metri di giudizio ben diversi per sanzionare i falli o giudicarne le prestazioni.
Ancora prima, nell’Inghilterra vittoriana, il “negro” era visto come un essere mentalmente inferiore, incapace di giocare ai giochi dei bianchi: il celebre velocista Arthur Wharton, portiere di buon livello nel Preston North End che si apprestava a diventare “invincibile”, era stato cacciato in malo modo per una sola partita sbagliata, e diversi anni dopo la stessa sorte era toccata a Walter Tull, morto poi da eroe combattendo per la Gran Bretagna durante la prima guerra mondiale.
È in nome loro – e ovviamente, non solo – che decido che scriverò quello che penso senza mezze misure, così come senza mezze misure combatte ogni giorno il mio amico Gian Marco, il creatore di Hopeball – di cui già vi ho raccontato – e organizzatore di questa splendida iniziativa che è la “No Borders League”, il campionato di calcio antirazzista che va in scena a Milano nell’aprile del 2017.
Al mio arrivo è come se mi trovassi in un altro, decisamente migliore, mondo: sul campo vicino al Circolo Arci ex Paolo Pini di Via Assietta fervono i preparativi per quella che sarà la terza giornata del torneo, e mentre le prime due squadre che scenderanno in campo sono impegnate nel riscaldamento, sul sottofondo di una gradevole musica diffusa da uno stereo portato per l’occasione, tutto intorno l’atmosfera è di vera festa.
Gian Marco sta appendendo alcuni striscioni in compagnia dei ragazzi che hanno deciso di aiutarlo in questo progetto. Intorno al rettangolo di gioco, in varie mandate, arrivano sempre più persone: sono le altre squadre, che arrivano da ogni zona di Milano, e insieme a loro ci sono anche semplici osservatori come me, che vengono tutti salutati con strette di mano e sorrisi spontanei.
La “No Borders League” è l’ultima idea di Gian Marco, la prima realizzata in Italia dopo le due esperienze che lui stesso ha sostenuto in Africa allenando due squadre di ragazzi del posto. Un torneo antirazzista, un torneo per chi purtroppo viene spesso guardato con sospetto per il colore della pelle e giudicato, reso il capro espiatorio dei tanti problemi che affliggono il nostro Paese.
Perché è purtroppo facile prendersela, in tempi di crisi, con lo straniero, con il diverso che non conosciamo, molto più facile che riflettere sui guai di un’Italia dove, tanto per dirne una, ci sono tre tipi diversi di mafia. È già successo, ma purtroppo l’essere umano non è noto per la sua capacità di imparare dalla storia.
Gian Marco ha ventidue anni, ma una maturità che io alla sua età mi sognavo: mi snocciola subito i nomi delle squadre partecipanti, lo fa non fermandosi un momento tra striscioni da appendere, foto da scattare, mani da stringere e abbracci da scambiare. Ci sono i ragazzi dell’Abareka Nandree, una Onlus presente in Mali e che a Milano organizza un corso gratuito di italiano molto frequentato, e c’è l’Unione Alfa che in zona San Siro offre un corso di italiano frequentato da molti ragazzi egiziani: la squadra è formata da loro, ma prevede anche il rinforzo di una ragazza brasiliana, per niente intimorita dagli avversari maschi e anzi, una delle stelle del torneo.
In campo, intanto, la prima partita sta per avere inizio: si affrontano i Lions di Milano, per la maggior parte ragazzi africani dotati di qualità atletiche che balzano subito all’occhio e richiedenti asilo presso la Cooperativa Lotta Contro l’Emarginazione di Sesto San Giovanni, e la squadra più multietnica presente al torneo, la rappresentativa della scuola di italiano per stranieri La Tenda: oltre a ragazzi africani schierano anche indiani, peruviani, colombiani e persino un ragazzo che arriva dal Tibet.
Dal punto di vista calcistico non c’è partita: dopo pochi minuti i Lions sono già in vantaggio, e alla fine del primo tempo conducono per 3-0. La Tenda ci prova, in difesa è bene o male organizzata, ma il portiere – almeno a giudicare dai commenti di chi guarda la partita – oggi non è in giornata di grazia e fisicamente non c’è paragone: ogni tentativo di reazione, di contropiede, viene frustrato sul nascere, e alla fine la gara si concluderà con un 6-0 in favore dei Lions severo ma giusto.
Due cose mi balzano all’occhio: i ragazzi ci tengono, ci tengono molto a giocare e a stare insieme ad altri stranieri come loro. Lo si vede nella formazione de La Tenda, dove sudamericani, africani e indiani si incoraggiano tra loro e tentano di collaborare, e lo si vede anche nei Lions. Prima della gara due di loro hanno litigato su chi dovesse giocare titolare e chi dovesse accomodarsi in panchina, eppure una volta che la partita ha avuto inizio ecco che l’escluso non si è perso d’animo, correndo lungo tutto il bordo del campo in un ruolo che è una sorta di primo tifoso/allenatore.
A proposito di allenatore, nell’intervallo ho conosciuto quello che a mio avviso è stato l’incontro più interessante di una giornata davvero ricca: il peuviano Luis Patiño allena i Corelli Boys primi in classifica, espressione del centro di accoglienza di Via Corelli. Si tratta di un vero e proprio tecnico di calcio, con tanto di patentino UEFA B e un passato in patria come portiere di seconda o terza divisione. È venuto qui in cerca di un futuro migliore per se e per la famiglia, qui ha conseguito la licenza per allenare.
Paradossalmente, quello che qui basterebbe per allenare non glielo permette in Perù, dove ha già provato a fare domanda ad alcune vecchie squadre. I soliti giochi di potere, la solita burocrazia che mi fa pensare che in fondo tutto il mondo è paese, e insomma Luis è qui, in cerca di un occupazione: nel calcio sarebbe il massimo, ma da come lo vedo – un uomo robusto, dallo sguardo limpido, molto scherzoso – potrebbe davvero fare qualunque cosa. Gli piacerebbe lavorare con i giovani, “perché è bello insegnare a chi vuole imparare”.
Ridendo mi dice che si ispira a Simeone: “lo vedrai, anzi, guarda!”
Già, perché il tempo di fare ancora due chiacchiere e poi Luis mi deve salutare per correre a istruire i suoi ragazzi, che oggi affrontano l’Abareka Nandree. Che la strategia tattica conti anche a questi livelli mi è subito evidente: i Corelli Boys mantengono strette le distanze tra i reparti, tengono la linea difensiva unita e piuttosto alta, aggressiva. Schiacciano gli avversari, e concluderanno con una roboante vittoria per 4-1 che conferma il loro primo posto in classifica.
Parlare di classifiche, di punti, è quasi superfluo. Tutti ci tengono, è vero, ma soprattutto tutti ci tengono a divertirsi e a partecipare, a scendere in campo sulle note della Champions League e indossando le divise che Hopeball è riuscita ad ottenere da alcune squadre della zona, maglie che resteranno ai ragazzi come ricordo di questi giorni – si spera – indimenticabili, spesi a rincorrere un pallone e dimenticando per un attimo le tante difficoltà, le tante e legittime paure su un futuro che non sarà mai facile.
Perché il calcio è questo, è unità, è passione, è mettere tutti sullo stesso piano: dimenticando amici e nemici, come fecero inglesi e tedeschi nella famosa Tregua di Natale durante la prima guerra mondiale, dimenticando chi è bianco, nero, povero, ricco. Saluto il mio amico Gian Marco mentre sta per iniziare la terza gara della giornata, mi racconta che si sarebbe aspettato un po’ più di aiuto da parte delle istituzioni ma che la solita burocrazia lo ha convinto che era meglio non attendere nessuno.
La “No Borders League”, iniziata il 26 marzo e che si concluderà il 30 aprile dopo aver fatto tappa persino a Pontida – un ovvio e forte messaggio per chi, nel 2017, ancora si ostina a considerare il razzismo “un’opinione” – è stata completamente autofinanziata: “Ci avevano promesso che ci avrebbero dato dei campi con spogliatoi e spalti, poi non è che si sono rimangiati la promessa, solo che ci hanno proposto di iniziare il campionato a metà maggio.” Una proposta impossibile da accettare, “ci sarebbe stato troppo caldo, e poi molti ragazzi sono musulmani e in quel periodo avrebbero osservato il Ramadan. Impossibile giocare in quel periodo.”
“Inoltre non puoi proporre un torneo per migranti e realizzarlo sei mesi dopo. Perché i migranti, in quanto tali, migrano.”
Nella “No Borders League” sono rappresentati quattro continenti: Africa, Asia, Sud America e anche Europa, un bellissimo miscuglio di etnie, tradizioni, sorrisi e insospettabili qualità tecniche. “Un ragazzo ha giocato persino nella Under 21 dello Yemen”, mi dice, mentre mi indica altre possibili stelle di un torneo che è davvero molto più grande e importante di come può apparire.
Gian Marco ha davvero qualcosa di speciale. Sarà l’enorme umanità che sprigiona e che gli porta in dote abbracci, saluti, strette di mano e sorrisi da parte di pressoché chiunque lo avvicina – è del resto lui stesso ad allenare ogni singola squadra partecipante, in un tour de force settimanale per Milano che non conosce sosta – sarà soprattutto per l’enorme ottimismo e la grandissima convinzione che ha quando si dice convinto di poter cambiare qualcosa attraverso un pallone.
“Dopo le esperienze in Africa, questa è la prima traccia vera di Hopeball in Italia. Sicuramente faremo qualcos’altro, senz’altro un’altra edizione, allargata, il prossimo anno.” Con o senza l’aiuto delle istituzioni, “perché abbiamo avuto la conferma che anche da soli possiamo farcela. Sicuramente però ogni aiuto sarà apprezzato, dalla visibilità, all’attrezzatura, agli spazi”.
Lascio il campo e ancora a lungo posso sentire la musica, le risate, le grida di incitamento in tantissime lingue. Posso ancora vedere i dribbling, i lunghi lanci, i gesti tecnici notevoli e quelli palesemente sbagliati ma tanto genuini. Ancora una volta Gian Marco e Hopeball mi hanno ricordato qual è la grande forza del calcio: la sua semplicità, la sua capacità di trasmettere valori universali. E posso senza dubbio dire, senza paura di sbagliare, che di Hopeball sentiremo ancora parlare e che forse, grazie anche a iniziative come la “No Borders League”, un altro mondo è davvero possibile.
“Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.”
(Nelson Mandela)