Valerij Voronin, il campione che morì due volte

Sugli splendori e le miserie del calcio sovietico si potrebbe scrivere un libro intero – e qualcuno lo ha fatto del resto – come sulle vicende che segnarono il destino dell’Unione Sovietica dal Dopoguerra al crollo del muro di Berlino.

Il Partito, come in molti paesi del blocco comunista, vedeva nello sport uno straordinario mezzo di propaganda e, pur restando il locale campionato isolato dal resto del Continente, la Nazionale Sovietica si impose all’attenzione del mondo specialmente negli anni ’60, quando una straordinaria nidiata di campioni si affermò.

Fu così che il mondo conobbe Lev Jasin, ad esempio, il miglior portiere di sempre nonché l’unico capace di conquistare il Pallone d’Oro.

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Milutin Ivković, l’eroe serbo che diede un calcio al Nazismo

6 maggio del 1943. Quando scese in campo per l’ultima partita, per far contenti gli amici, non poteva sapere che la fine era dietro l’angolo: appena due settimane dopo quell’ultima gara, Milutin Ivković sarebbe morto fucilato dai nazisti che avevano invaso il suo Paese, lasciando dietro di se una leggenda.

Era stato tra quei calciatori che avevano partecipato alla prima edizione della Coppa del Mondo, era uno dei migliori difensori d’Europa dell’epoca ed era – prima di tutto – un vero serbo, un patriota.

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1° luglio 1916: partita contro la morte sul fiume Somme

Nella sua breve vita Wilfred Nevill fu molte cose: fiore all’occhiello del College di Dover, era studente modello, capoclasse, capitano della squadra di cricket e giocatore titolare delle rappresentative di rugby, hockey, oltre ad essere uno dei corridori più forti dell’istituto.

Eppure, nonostante del calcio fosse soltanto un semplice tifoso, è proprio attraverso questo sport che il nome di questo giovane capitano dell’Esercito Britannico, morto in guerra a due settimane dal suo 22° compleanno, è entrato nella storia.

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Archie Hunter, il primo vero eroe del football

“Archie Hunter fu un principe del dribbling. Non era un atto insolito per lui partire da metà campo e superare in dribbling l’intera squadra avversaria!

Non si sarebbe liberato del pallone fino a quando non lo avrebbe letteralmente accompagnato in mezzo ai pali”.

(“Association Football and the men who made it”, 1906)

Si mormora che sul letto di morte abbia espresso un ultimo singolare desiderio: quello di essere sollevato dal letto per osservare dalla finestra lo spettacolo di una folla sul punto di dirigersi al “Perry Barr”, lo stadio della sua squadra del cuore. Dopodiché è spirato.

Pochi minuti o poche ore dopo non è dato saperlo, considerato che l’episodio risale alla fine del 1800, e tutto ciò che possiamo ricostruire sul calcio dell’epoca rimane sospeso fra mito e realtà.

Di certo possiamo attestare che a morire in quella fredda sera di fine novembre del 1894 nella sua casa di Aston, a Birmingham, fu una delle prime leggende della storia del football inglese, uno dei primi eroi, quindi, della storia del calcio mondiale.

Il suo nome era Archie Hunter.

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Moacir Barbosa, cinquant’anni di solitudine

Moacir Barbosa

Moriva, il 7 aprile del 2000, un campione che dentro era ormai morto da tempo.

Un calciatore che aveva visto tutti i successi accumulati in carriera cancellati da un unico, fatale, errore, e che da allora era stato dimenticato dai propri connazionali, dal proprio calcio.

Un calcio, quello brasiliano, che è sinonimo di allegria e che invece un tragico pomeriggio del 1950 diventò tragedia. Maracanaço lo chiamarono in Brasile, “la disfatta del Maracanà”: il colpevole, l’unico imputato del lutto che colpì una nazione, fu lui. Moacir Barbosa Nascimento, il protagonista della nostra storia di oggi.

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Matthias Sindelar, la “Cartavelina” che il Nazismo non riuscì a piegare

“Giocava a calcio, e non seppe
della vita molto altro.
Visse, perché doveva vivere
di calcio e per il calcio” [1]

A vederlo fuori dal campo nessuno avrebbe mai pensato che fosse uno sportivo: alto, scheletrico, il volto infossato dava risalto a un bel paio d’occhi azzurri che sembravano finiti lì quasi per caso. Se ti mostrava il fianco quasi scompariva, tanto breve era la distanza tra la schiena e il petto, quella fragile intercapedine in cui sono contenuti il cuore e tutti gli altri organi vitali.

Se però nei dintorni c’era un pallone, potevi stare tranquillo che ti saresti inaspettatamente ricreduto. Perché quell’uomo dall’aspetto così bizzarro era, semplicemente, il più forte calciatore al mondo. Lo chiamavano “Der Papierene”, “Cartavelina”, per via del suo aspetto fisico. O anche “Il Mozart del Calcio”, per il fatto di essere austriaco e di aver saputo fare con un pallone quello che il grande Amadeus ha fatto con la musica.

Incantare.

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Il tragico destino di John Thomson, il “Principe dei portieri”

A guardarlo bene, quel ragazzino che lavorava in miniera non aveva certo il fisico di un portiere. Eppure qualcuno lo definiva un fenomeno, una cosa mai vista.

Steve Callaghan, scout per conto del Celtic Glasgow, era giunto in quel piccolo paesino di minatori vicino a Fife esclusivamente per lui.

Lo aveva visto ergersi sopra a tutti in una partita di poco conto quando il Wellesley Juniors aveva affrontato il Denbeath Star.

Quel ragazzino di diciassette anni, che al termine della gara firmò per la squadra più importante di tutta la Scozia, era John Thomson.

In molti pensavano che sarebbe diventato un campione, ma nessuno poteva immaginare che sarebbe divenuto una leggenda del calcio.

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Jimmy Thorpe, il martire dei portieri

Entrato nel Sunderland ad appena 17 anni, nel 1930, Jimmy Thorpe era un promettente portiere che dopo un paio di stagioni si era imposto come titolare in una delle squadre più importanti d’Inghilterra.

Un tempo noto come The team of all talents, capace di vincere ben cinque campionati tra il 1892 e il 1902, il Sunderland era riuscito a imporsi soltanto una volta con l’avvento del XX secolo, ma con Thorpe in squadra le cose avevano ripreso a funzionare, e la squadra era tornata ad ambire una vittoria.

Il futuro era dalla parte di questo giovane e talentuoso portiere, ma purtroppo tutto si interruppe il 5 febbraio del 1936, quando morì nell’ospedale cittadino.

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Adrian Doherty, il quinto Beatle della classe del ’92

Adrian Doherty era l’ala destra del Manchester United giovanile che nel 1992 stupì tutta l’Inghilterra.

Una squadra composta dai fratelli Neville, difensori abili e versatili; dal centrocampista Paul Scholes, un ragazzino rossiccio e asmatico che sarebbe diventato contro ogni pronostico uno dei più forti e completi interpreti recenti del ruolo.

L’ala sinistra era un tale Ryan Wilson, dotato di dribbling fulmineo e velocità pazzesca. Tutti ne parlavano un gran bene, in seguito avrebbe abbandonato il cognome e la nazionalità inglese del padre per prendere quelli della madre.

Sarebbe diventato Ryan Giggs, bandiera eterna dei Red Devils e della Nazionale del Galles, uno dei più forti giocatori di sempre.

E poi c’era David Beckham, che sarebbe diventato una stella non solo sul campo, uno dei giocatori più pagati e conosciuti al mondo. Tutti forti, fortissimi.

Adrian Doherty, la stella della “Class of ’92

Eppure se qualcuno avesse chiesto ad Alex Ferguson, tecnico dello United che si fregava le mani consapevole delle carriere che avrebbero avuto quei ragazzini, chi fosse il più forte della nidiata la risposta sarebbe stata una sola.

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João Evangelista Belfort Duarte

Ingegnere civile brasiliano, persona coltissima e dai valori profondi, la sua conoscenza della lingua inglese gli permette di tradurre le regole di questo nuovo sport arrivato dall’Inghilterra e di diffonderlo in Brasile, dove è considerato di fatto il padre del futebol insieme a Charles Miller e Tomas Donohoe. Il suo nome era João Evangelista Belfort Duarte.

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Khalidi Al Rowaihi, l’eroe dimenticato dei “Figli del Deserto”

L’Arabia Saudita che vince il Mondiale. Il suo centravanti miglior marcatore del torneo. Succederà mai? È già successo. Precisamente nel 1989 in Scozia, durante la terza edizione del Mondiale FIFA Under-16: pochissimi dei 22 ragazzi che quel pomeriggio scesero in campo avrebbero poi davvero giocato a livello professionistico, visto che il passaggio al “calcio reale” spesso è una tagliola che spezza tante gambe, lasciando andare avanti solo chi davvero può diventare qualcuno.

Khalid Al Rowaihi ce l’avrebbe potuta fare. E non fu bloccato, come tutti gli altri, dall’impatto con il calcio “adulto”; né ebbe infortuni gravi o comportamenti fuori dalle righe tali da fargli perdere il treno giusto. Morì, semplicemente e tristemente, un giorno di metà marzo in Giordania, il Paese della madre. Un incidente in auto come purtroppo ne capitano tanti, la strada che implacabile decide – spesso capricciosamente – chi deve restare e chi se ne deve andare.

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Iwuchuckwu Amara Tochi, morto inseguendo un sogno

Diventare un calciatore professionista è il sogno di ogni bambino, a maggior ragione quando questa è l’unica strada che può portarti via da una realtà fatta di miseria, violenza e soprusi.

Giocare a calcio era anche il sogno di Iwuchukwu Amara Tochi, bambino nigeriano cresciuto in mezzo a mille difficoltà e che tuttavia, inseguendo un pallone aveva dimostrato di saperci fare.

Forse non abbastanza per inseguire un posto nei campionati più importanti al mondo, ma tanto da poter ambire di giocare nei tornei del sud-est asiatico, dove non circolano i milioni ma dove si può comunque diventare dei professionisti.

Non poteva immaginare che sarebbe andato incontro alla morte, vittima della sua ingenuità e di uomini senza scrupoli.

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