L’ascesa e la tragica fine di una delle più grandi speranze del calcio sovietico.
Lascia un commentoTag: anni ’70
Dove nascondevate quello specchio?
Quello in cui ogni domenica riflettevate la vostra bellezza e restavate assorti, come rapiti da un estasi partorita da uno strano destino. Quello che sussurrava al vostro orecchio che eravate talmente attraenti da non dover rischiare di cedere al passo audace della gloria ma di limitarvi nella contemplazione dell’unicità del primato.
Lascia un commentoL’arazzo sembra abbia i contorni particolarmente confusi e invece a guardarlo bene i fili che lo intrecciano sono fissati da una rara combinazione di bellezza e talento, dove la parola bellezza va strappata dalla stretta attualità per riportarla dentro la sua densità semantica primordiale, ossia nella grazia, in quelle note apparentemente dissonanti che regalano una melodia contro cui non può competere la più trionfante espressione del contemporaneo.
Lascia un commentoKinshasa, 24 gennaio 1971, “Stadio 20 maggio”.
Mancano ancora tre anni e mezzo alla sfida che vedrà protagonisti Muhammad Ali e George Foreman e che sarà ricordata come “The Rumble in the Jungle”, ma un altro episodio storico per lo sport africano va in scena nello stadio, gremito in ogni ordine di posto per la finale di ritorno che assegna la sesta edizione della Coppa dei Campioni d’Africa.
A contendersi il trofeo nato nel 1964, come tre anni prima, i ghanesi dell’Asante Kotoko e i padroni di casa, i congolesi del TP Englebert. È in questo giorno che nasce la leggenda di uno dei più grandi portieri che l’Africa abbia mai conosciuto: Robert Mensah.
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È davvero difficile da credere, ma non molto tempo fa la storia del calcio ha scritto un capitolo importantissimo anche in Malesia. Al turista e appassionato che dovesse capitare dalle parti dello Stadium Merdeka (“Stadio dell’Indipendenza”), che ha ospitato la sua ultima partita internazionale addirittura nel 2001, potrebbe sembrare una leggenda locale e poco più.
Possibile che un impianto tanto piccolo, capace di contenere a stento 20.000 spettatori, un tempo ne ospitasse più del triplo e fosse noto per essere il più grande di tutto il sud-est asiatico? Possibile che un tempo, qui, i grandi campioni internazionali venissero a sfidare la Malesia senza la certezza di vincere giocando in pantofole?
È tutto vero. Un tempo, che oggi sembra lontanissimo ed è ovviamente sconosciuto ai giovani tifosi locali che seguono i campioni occidentali, le Harimau Malaysia (le “Tigri della Malesia”) erano l’orgoglio di un’intera nazione, che andava letteralmente in estasi ogni volta che vedeva scendere in campo i propri eroi.
Lascia un commentoIl cinno si presento’ alla Virtus con la borsa della Fratelli Rosselli e quella sua faccia strana, un po’ da vecchio, nonostante l’età. Il primo che conobbe, aspettando di cambiarsi, fu Piero Maini. Strani a volte i casi della vita. Giuliano, subito geniale, fu amato/odiato in rossoblu.
Piero era un attaccante nato ma fu battezzato ala tornante, dovette aspettare il momento del distacco definitivo col club professionistico per esprimersi come punta pura, a suon di gol, dal San Lazzaro al Sassuolo (dove ancora lo ricordano) passando per Castel San Pietro. Fiore a 17 anni era il monello irriverente che dribblava Bulgarelli in allenamento il giovedì. E proprio il Bulgaro, passata l’iniziale e superficiale irritazione, lo volle presto in prima squadra.
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Accostare oggi le parole Lipsia (o Leipzig) e calcio (o fussball) porterà gran parte degli appassionati di pallone a pensare al RasenBallsport Leipzig, multimilionaria società calcistica di proprietà della nota multinazionale Red Bull che ha da poco guadagnato la promozione in Bundesliga, il massimo campionato di calcio tedesco.
Una squadra tanto moderna quanto poco romantica, contestata da gran parte dei vecchi tifosi locali. Ma quello che può sembrare un semplice “eccesso di nostalgia” per un calcio che non c’è più, nella città che nell’ottobre del 1813 fu teatro della famosa “Battaglia delle Nazioni”, nasconde in realtà radici ben più profonde.
Per ritrovarle bisogna fare un salto indietro nel tempo di oltre mezzo secolo, fino al 1963, quando un pugno di uomini che non godeva di alcuna considerazione fu capace di realizzare una delle imprese più clamorose nella storia del calcio.
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Se oggi socchiude gli occhi, dimenticando per un momento di osservare i ragazzi che allena nella zona di Long Island e annusando invece semplicemente l’odore dell’erba, del campo, Werner Roth può tornare indietro nel tempo fino agli anni d’oro del calcio in America.
Non quello di oggi quindi, ovviamente più organizzato e sicuramente meglio gestito da dirigenti attenti ai bilanci, ma a quello degli anni ’70, quando il soccer divenne improvvisamente cultura di massa anche nel paese del football americano e del basket NBA, attirando colossi imprenditoriali e campioni incredibili.
Colorato, eccessivo, questo è stato il calcio americano nella sua prima incarnazione, quando nel giro di pochi anni ragazzi come Roth passarono da giocare anonime partite in campetti quasi dimenticati a trovarsi allo Yankee Stadium stracolmo, i dollari che abbondavano, le vittorie, la fama e compagni di squadra straordinari.
Qualche nome? Gordon Banks, Franz Beckenbauer, Giorgio Chinaglia, Carlos Alberto, Johan Neeskens. E poi il più grande di tutti, Sua Maestà Pelé, l’uomo che aveva reso possibile l’impossibile.
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“El Trinche Carlovich fu uno di quei ragazzi di quartiere che, da quando sono nati, hanno come unico giocattolo la palla. Tra lui e la palla c’era un rapporto molto forte.
La tecnica che aveva lo rendeva un giocatore completamente differente. Era impressionante vederlo accarezzare la palla, giocare, dribblare. Certamente durante la sua carriera non trovò risorse fisiche che si abbinassero a tutte le qualità tecniche che aveva.
Inoltre, sfortunatamente, nemmeno ebbe qualcuno che lo guidasse o comprendesse.”
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Il calcio, si sa, è anche magia. Soprattutto in Sudamerica, la terra delle leggende, di Abdón Porte suicidatosi per troppo amore per il Nacional, di Sócrates e della “Democracia Corinthiana”, di Carlos Caszely e della sua ribellione a Pinochet, di Garrincha – “l’angelo dalle gambe storte” – e di moltissimi altri campioni.
Tra questi, un posto nell’immortalità lo merita anche Elias Figueroa, favoloso difensore cileno attivo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80 e capace, nel 1975, di segnare uno dei goal più leggendari nella storia di questo sport: “El gol illuminado”, il gol illuminato.
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Un talento eccezionale, britannico, con un innato istinto autodistruttivo e problemi di dipendenza. Qualsiasi appassionato di calcio, di fronte a questi indizi, potrebbe fare istintivamente il nome di George Best, personaggio straordinario su cui sono stati scritti libri e girati film. Quasi nessuno, invece, penserebbe a Robin Friday, una specie di leggenda urbana del calcio che a differenza del più illustre collega non ha mai giocato in massima serie, figuriamoci vincere il Pallone d’Oro.
Eppure la sua storia, in qualche modo, è entrata comunque nel mito. Diventando una specie di cult tra appassionati grazie a uno splendido libro del 1998, “The Greatest Footballer You Never Saw”, che raccontava vita e imprese di questo eroe di provincia attraverso racconti e ritagli di giornale. La vita di una vera e propria rockstar di periferia, un campione che non riuscì a essere tale. O forse non lo volle, che importa. Questa è la sua storia. La storia di Robin Friday, “il più grande calciatore che non avete mai visto”.
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Il calcio e la politica sono due cose molto diverse che però, nel corso del secolo di storia di questo sport, hanno avuto numerosi incroci.
I più famosi regimi del mondo hanno sempre visto infatti il calcio come un mezzo di propaganda, interferendo con esso.
Queste sono quattro storie in cui la politica è entrata prepotentemente, spesso tragicamente, nella vita dei calciatori.