L’arazzo sembra abbia i contorni particolarmente confusi e invece a guardarlo bene i fili che lo intrecciano sono fissati da una rara combinazione di bellezza e talento, dove la parola bellezza va strappata dalla stretta attualità per riportarla dentro la sua densità semantica primordiale, ossia nella grazia, in quelle note apparentemente dissonanti che regalano una melodia contro cui non può competere la più trionfante espressione del contemporaneo.
La personalità, in Luigi Meroni detto Gigi, sale sull’altare dell’estetismo nell’accezione più raffinata e antica, e l’apprezzamento raggiunge effetti talmente curiosi da indurci a provare a paragonarlo al nuovo, per il mero piacere di trovare punti d’incontro nel faccia a faccia fra glorie passate e campioni recenti.
Tuttavia la traslitterazione incontra immediatamente delle difficoltà; prima fra tutte la tendenza del moderno nel subire il fascino di tutte le manifestazioni di piacevolezza fisica riconducibili alla semplicità delle cose. Dopodiché, irrefrenabile, soraggiunge l’impulso di attribuire la palma del supremo incanto a coloro che per tragico destino raggiungono troppo presto quel Pantheon riservato ai grandi della nostra storia.
Qualcuno disse: coloro che muoiono giovani sono i preferiti degli Dei. Se non fosse così, per quale motivo dovremmo avere l’abitudine di considerare più belle, più struggenti, creature ormai passate a miglior vita rispetto ad altre magari ancora vive e intorno a noi.
L’attrattiva di Gigi Meroni da Como, da quel famoso ramo del lago di manzoniana memoria, sta nel suo essere dentro e fuori il tempo alla stessa maniera, nella peculiare disposizione del genio e dei suoi significati, lontano dai letali significanti dello status quo, della solita arte di stato, l’inutile, orrida rappresentazione di stato.
Poiché l’arte ha l’obbligo di andare oltre, deve essere ambigua, inconcepibile, toccando punte di estasi se vuole avere l’ambizione d’essere passata per arte, altrimenti resterà sempre anonima, sempre tristemente borghese.
Meroni è un mansarda in Piazza Vittorio a Torino, ma in fondo potrebbe essere Parigi. Del resto Torino è la più francese delle città italiane e la mansarda attira il gusto del bohémien. Il tipo di casa in cui il punto di equilibrio della vita trova magicamente il corretto bilanciamento creando un oasi di pace dove liberarsi dal quotidiano e vivere al meglio allontanandosi dal grigiore opprimente dell’appartamento o dall’opulenza fiaccante della villa colma d’etichette da rispettare.
Ecco perché Meroni, estroverso e controcorrente, scelse presto questa soluzione dopo che salì da Genova a Torino per vestire la maglia granata. Che importa se certe volte le mansarde non sono eccessivamente spaziose? Cosa c’è di più piacevole che avere un finestra da cui vedere il cielo la mattina mentre si beve il caffè?
Illuminati dalla luce zenitale, quella che arriva dal tetto, entra in profondità rischiarando gli spazi, le tele abbozzate, i pennelli, i progetti di abiti scarabocchiati su album sparsi sulla scrivania, le poesie raccolte accanto ai libri del circolo letterario torinese.
Quelli crepuscolari di Guido Gozzano, quelli pieni di langhe e barolo di Cesare Pavese e Beppe Fenoglio, mentre hai l’impressione di intravedere appoggiati sul comodino gli occhiali a stanghetta di Piero Gobetti, e cogliere nell’inganno del silenzio i colpi di tosse dal carcere di Antonio Gramsci.
Meroni ascolta i Beatles, si vestirà come loro, si farà crescere i baffi, i basettoni, e una barbetta incolta da clochard; amava le auto veloci e velocemente perderà la testa per Cristiana Uderstadt, una giostraia polacca, la bella del Luna Park, una donna conosciuta a Genova negli anni passati in rossoblu.
Se ne innamorerà così follemente da presentarsi al matrimonio imposto dai genitori di lei per tentare di fermare la cerimonia, dopo aver corso in auto ascoltando la strofa d’apertura di “Ticket To Ride”.
“I think I’m gonna be sad
I think it’s today, yeah
The girl that’s driving me mad
Is going away”
Lo chiameranno “Beat”, lo chiameranno “Calimero”, lo chiameranno “7 bello”. Lui volava sul campo, lui era soprattutto la farfalla granata.
Gli avversari invece non lo chiameranno, costretti a cercarlo nell’horror vacui, perché Gigi Meroni, il dandy esile e leggero, risulterà imprendibile, quasi invisibile, non gli concederà scampo, ubriacandoli di finte, innervosendoli, lasciandoli ad osservare il suo irridere la fascia e tutte le accademie.
Segnerà pochi gol, ma tutti da cineteca. Tutti da custodire gelosamente nel museo del Cinema sotto la Mole Antonelliana.
Edmondo Fabbri lo voleva in Nazionale, lo voleva pulito, sbarbato e senza baffi. Meroni in quel caso rifiutò. Viveva davvero parallelo al tempo, del tempo era solo parte contigua, il tempo non lo sfiorava, non lo toccava.
Sarà per quello che il tempo decise di odiare Gigi.
Poi arrivò la faccenda del “mezzo miliardo”. Gianni Agnelli cercò di portare il campione alla Juventus sbandierando una cifra impensabile. I tifosi del Toro fecero di tutto per impedire il suo trasferimento. I più giovani si identificavano in Meroni, per loro era un esempio da seguire, in quell’ultimo anno prima della fatidica contestazione del sistema.
Gli operai della Fiat, quelli dal cuore granata, cominciarono a boicottare le catene di montaggio della nuova 128. Tutte uscivano dalla fabbrica prive di qualche orpello, rigate, e con un volantino ciclostilato in proprio appiccicato in fretta sul cruscotto.
“Agnelli, giù le mani dal Toro“.
E Meroni alla fine restò nella sponda giusta di Torino, ma il tempo ormai lo detestava, il tempo voleva masticarlo e sputarlo via come una gomma americana. In gennaio intanto un colpo di pistola nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo sconvolse l’Italia e il suo Festival della Canzone. Si era ucciso Luigi Tenco, guarda un po’ Luigi, esattamente come Meroni, lasciandoci con quel “Ciao amore ciao” cantato in coppia con Dalida.
Meroni è una fugace pennellata naif, l’esalazione dell’incenso nella cattedrale di Superga, l’ennesimo sfortunato gemito del Torino.
È il gol prima di segnarlo, la grazia di un ispirazione che tocca solo chi ha il Karma per meritarsela.
Meroni è un gelato con l’amico e compagno Fabrizio Poletti dopo la vittoria sulla Sampdoria per 4-2 del 15 ottobre 1967.
È la crudeltà ironica di essere stato investito da un suo tifoso, nonché futuro presidente del Torino.
Meroni è quel grido disperato di Cristiana quando i medici si fecero intorno alla sua compagna spiegandole che non c’era più nulla da fare, che quel maledetto incidente in Corso Re Umberto era stato fatale.
E allora tutte quelle poesie, tutti quei libri, tutti quei dischi, quei quadri, si guardarono intorno nella luce diafana della mansarda e, commossi, capirono di non essere rimasti soli.
Perché una farfalla si posò delicata sulla punta di un pennello.
“…che quando scendo in campo amore mio
certi pensieri/dolori si trasformano in un magico show
e li faccio sognare, in balia del mio spirito innocente,
li stupisco sempre sono un giocoliere,
li faccio godere geniale, anarchico e irriverente,
tutti battono le mani, si alzano improvvisamente,
per non perdere di vista la palla avvelenata
che sembra impazzire innamorata,
quando sulla fascia vola la Farfalla Indiavolata.”
Simone Galeotti è un apprezzatissimo scrittore e blogger, soprattutto un amico e l’autore della prefazione del mio “Pionieri del Football”.
Per Urbone Publishing ha scritto “Barrio”, “British Corner”, “Celts”, “La strada di Brian”, “Storie di ordinaria Argentina” e “Villans Years“.
BIBLIOGRAFIA SU GIGI MERONI:
- Barbero, Sergio (2008) Gigi Meroni, il ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones – ACQUISTA
- Peroni, Marco (2010) Gigi Meroni, il ribelle granata – ACQUISTA
- Dalla Chiesa, Nando (2012) La farfalla granata. La meravigliosa e malinconica storia di Gigi Meroni, il calciatore artista – ACQUISTA
- Comerio, Pierluigi (2015) Gigi Meroni, una vita a tutto campo – ACQUISTA