John Madden, l’idolo del Celtic Park che divenne “il padre del calcio ceco”

6 luglio 1930, Stade des Charmilles, Ginevra.

Forse fu in quel momento che Jake Madden capì che la sua missione si era conclusa. Oltre ventimila persone circondavano il campo, in attesa di vedere all’opera quelli che poteva senz’altro considerare, senza mezzi termini, “i suoi ragazzi”.

I suoi e di nessun altro, perché quando era arrivato a Praga, oltre vent’anni prima, il football non era altro, per il popolo boemo, che un curioso passatempo, un gioco praticato da pochi appassionati e senza alcuna eccellenza.

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Czibor sfida l’Unione Sovietica (di Vladimir Dimitrijević)

Il seguente, splendido, brano è tratto da uno dei più bei libri che abbia mai letto: “La vita è un pallone rotondo”, di Vladimir Dimitrijević. Mi ricordo la partita in cui questa squadra affrontò a Mosca l’Unione Sovietica, in occasione dell’inaugurazione del suo grande stadio. Era consigliabile non vincere contro l’URSS in quegli anni! La … Leggi tutto

Boris Paichadze: lo strano destino del campione georgiano

Lo stadio nazionale della Georgia è intitolato a Boris Paichadze.

Si tratta del più grande giocatore mai espresso da una scuola calcistica sicuramente non tra le più importanti al mondo ma che è stata capace nella storia di regalare agli appassionati altri eccezionali talenti: dal grande Murtaz Khurtsilava, membro dell’URSS bronzo alle Olimpiadi e finalista agli Europei nel 1972, ai più recenti Ketsbaia, Kinkladze, Arveladze e Khaka Kaladze, per due volte Campione d’Europa con il Milan nel 2003 e nel 2007.

Nessuno di questi però è mai stato considerato superiore a Boris Solomonovich Paichadze, per i georgiani semplicemente il più grande di sempre e che pure non avrebbe mai fatto il calciatore, se non fosse stato per un telegramma.

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Romualdas Marcinkus e il suo ultimo volo da campione ed eroe

romualdas marcinkus

La pallottola che mise fine alla vita di Romualdas Marcinkus arrivò improvvisa, alle spalle, mentre su ordine dei soldati nazisti che lo avevano catturato stava inoltrandosi in un bosco nei pressi di Danzica.

È assai probabile che, fino a un momento prima, l’eroe di guerra lituano stesse pensando all’ennesima impresa in cui si sarebbe lanciato, è possibile che stesse già progettando una nuova “grande fuga”, la stessa che non era andata a buon fine pochi giorni prima e che avrebbe persino ispirato, con l’eroismo di chi ne fu protagonista, un famoso film di Hollywood qualche anno dopo, a conflitto finalmente concluso.

Quella pallottola, sparata per ordine di Adolf Hitler, mise invece fine all’ultima delle molte vite di Romualdas Marcinkus: calciatore, patriota, eroe e infine martire, vittima della follia che la storia avrebbe ricordato come “seconda guerra mondiale”.

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Il resto di Lipsia: storia degli “scarti” più forti di sempre

Accostare oggi le parole Lipsia (o Leipzig) e calcio (o fussball) porterà gran parte degli appassionati di pallone a pensare al RasenBallsport Leipzig, multimilionaria società calcistica di proprietà della nota multinazionale Red Bull che ha da poco guadagnato la promozione in Bundesliga, il massimo campionato di calcio tedesco.

Una squadra tanto moderna quanto poco romantica, contestata da gran parte dei vecchi tifosi locali. Ma quello che può sembrare un semplice “eccesso di nostalgia” per un calcio che non c’è più, nella città che nell’ottobre del 1813 fu teatro della famosa “Battaglia delle Nazioni”, nasconde in realtà radici ben più profonde.

Per ritrovarle bisogna fare un salto indietro nel tempo di oltre mezzo secolo, fino al 1963, quando un pugno di uomini che non godeva di alcuna considerazione fu capace di realizzare una delle imprese più clamorose nella storia del calcio.

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Sándor Szűcs, il martire dimenticato della Grande Ungheria

Se il campionato ungherese è oggi considerato un torneo minore, scavando nella polvere dei ricordi gli appassionati magiari possono trovare numerose storie di un passato che fu glorioso, e che all’inizio degli anni ’50 rischiò di sconvolgere gli equilibri del calcio mondiale.

Erano i tempi del grande Puskás, di Hidegkuti, di Czibor e Kocsis, era la squadra che aveva umiliato a Wembley i maestri inglesi e che in quasi quattro anni aveva perso solo una partita, la più importante, quella che avrebbe potuto davvero cambiare la storia: la finale dei Mondiali del 1954.

Quella squadra straordinaria avrebbe potuto essere persino più forte se diversi dei suoi campioni non si fossero opposti al regime comunista che aveva preso il controllo del Paese nel 1949 sotto la guida di Mátyás Rákosi.

István Nyers, che da noi si sarebbe distinto con le maglie di Inter e Roma, in quel momento si trovava all’estero ed aveva preferito non tornare; lo aveva fatto il grande László Kubala, a tutt’oggi considerato il più grande giocatore di sempre ad aver vestito la maglia del Barcelona, ma capita l’aria che tirava era riuscito a fuggire sfruttando una divisa da soldato.

Era andata male a Ferenc Deák, apertamente oppositore di un regime che, non potendo incriminarlo, avrebbe costretto il più grande centravanti magiaro di sempre a giocare per tutta la carriera in squadre minori, escludendolo naturalmente dalla Nazionale.

Ma la sorte peggiore sarebbe toccata al difensore Sándor Szűcs, scelto per essere un esempio per tutti e che, inseguendo la libertà, avrebbe finito per trovare la morte.

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27 gennaio: Il calcio e la memoria

“A qualcuno questa partita potrà forse apparire come una breve pausa di umanità in mezzo ad un orrore infinito. Ai miei occhi, invece, come a quelli dei testimoni di questi partita, questo momento di normalità è il vero orrore del campo.

Poiché possiamo, forse, pensare che i massacri siano finiti – anche se qua e là si ripetono, non troppo lontano da noi. Ma quella partita non è mai finita, è come se durasse ancora, ininterrottamente.”

(Giorgio Agamben in commento ad un episodio narrato da Primo Levi ne “I Sommersi e i Salvati”, in cui si fa menzione di una partita di calcio svoltasi all’interno di un capo di sterminio durante una pausa di lavoro, in cui si affrontarono i militanti delle SS e i membri delle unità speciali “Sonderkommando”, reclutati nelle file dei deportati)

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Valerij Voronin, il campione che morì due volte

Sugli splendori e le miserie del calcio sovietico si potrebbe scrivere un libro intero – e qualcuno lo ha fatto del resto – come sulle vicende che segnarono il destino dell’Unione Sovietica dal Dopoguerra al crollo del muro di Berlino.

Il Partito, come in molti paesi del blocco comunista, vedeva nello sport uno straordinario mezzo di propaganda e, pur restando il locale campionato isolato dal resto del Continente, la Nazionale Sovietica si impose all’attenzione del mondo specialmente negli anni ’60, quando una straordinaria nidiata di campioni si affermò.

Fu così che il mondo conobbe Lev Jasin, ad esempio, il miglior portiere di sempre nonché l’unico capace di conquistare il Pallone d’Oro.

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Nikon El Maestro, il campione-bambino

A chiunque sia capitato di passeggiare per le Ramblas di Barcelona, in Spagna, sarà capitato di vedere tra i numerosi artisti di strada presenti alcuni veri e propri fenomeni calcistici, personaggi capaci di eseguire un numero impressionante di palleggi, fenomeni del numero ad effetto.

La domanda, che spesso sorge in questi casi all’osservatore casuale, è il perché questo talento venga usato per gli show in strada e non all’interno di uno stadio, in un contesto professionistico magari. La risposta – che ogni vero appassionato di calcio conosce – è che nel calcio il talento è solo uno degli ingredienti necessari per essere un buon calciatore, e spesso neanche quello più importante.

La prova? La storia di Nikon Jevtić, meglio noto al mondo con il nome di Nikon El Maestro: un decennio fa il mondo del web impazziva per il nuovo fenomeno del calcio serbo, prospettandogli un futuro da fenomeno per via di un talento cristallino e innegabile.

Il prossimo 3 giugno, invece, Nikon compirà 22 anni e lo si può già considerare un ex-calciatore.

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