Inizio oggi una serie di articoli con cadenza settimanale in cui mi divertirò a raccontare, nel modo più conciso e semplice possibile, storia ed evoluzione della tattica calcistica dalle origini ai giorni nostri. Un percorso che è stato realizzato da grandi uomini di calcio, innovatori più o meno passati alla storia, e che allo stesso tempo si è fondato seguendo diverse tradizioni, culture e momenti storici. Fondamentali, per me, si sono rivelate alcune letture scritte da persone molto più competenti di me che di volta in volta citerò in calce all’articolo.
Questi articoli non sono da intendersi quindi né come qualcosa di particolarmente innovativo (sentivo però il bisogno di avere qualcosa di simile all’interno di “L’uomo nel pallone”) né come lezioni che non posso permettermi di dare e per cui rimando appunto ai testi che indicherò. Nel mio libro di prossima pubblicazione sfiorerò soltanto l’argomento, trattando infatti il periodo storico che va dalla metà alla fine del diciannovesimo secolo.
Le origini: il dribbling game
Dire che ai primordi il calcio non prevedesse alcuna tattica non è certamente un’eresia. Il gioco affondava infatti le sue radici nel ‘mob game’, una sfida che si svolgeva ritualmente in alcune città britanniche e che vedeva due enormi squadre formate da un numero indefinito di giocatori lottare letteralmente senza esclusione di colpi per trascinare una palla formata da stracci o budella di animale gonfiate in un determinato punto della città, spesso l’arco di un ponte o il campanile di una chiesa.
Dopo essere stato messo più volte al bando per via dell’enorme disordine pubblico che causava – e che portò anche diverse morti – il gioco fu reinserito verso la fine del ‘700 nelle diverse public schools inglesi e almeno in minima parte regolamentato. A livello tattico, se di tattica si può parlare, non cambiava però niente: negli stretti chiostri di Charterhouse i ragazzi usavano i piedi ma non trovavano affatto conveniente tentare un passaggio vista la corta distanza da coprire per cercare il goal, mentre nei larghi campi di Eton o di Rugby il gioco prevedeva ancora un largo utilizzo delle mani.
In ogni caso il passaggio in avanti era in gran parte proibito o almeno fortemente scoraggiato da una regola del fuorigioco che prevedeva che fosse da considerarsi in offside chiunque non avesse tra se e la porta almeno tre giocatori.
Anche quando le laws of the game vennero stilate nel 1863 dalla neonata Football Association quest’ultima regola venne mantenuta, e insieme alla ferrea convinzione che fosse “da uomini” sfidare la difesa avversaria caricandola frontalmente – mentre era decisamente meno mascolino affidarsi a un compagno – portò ad un calcio che inizialmente fu una semplice disfida tra fieri quanto tatticamente ottusi atleti, caratteristica che venne mantenuta soprattutto nel ricco sud d’Inghilterra, mentre in città come Nottingham e Sheffield si diffondeva – complice un regolamento diverso e un atteggiamento generalmente meno tradizionalista – un altro tipo di gioco.
Ancora lontano dal prevedere passaggi volontari, nel football che si giocava a nord del Paese si intravedeva perlomeno la volontà di supportare chi tentava il dribbling, circondandolo e cercando di recuperare il pallone eventualmente perso per tentare una nuova e immediata carica offensiva.
È necessario a questo punto specificare che il dribbling in uso negli anni ’50 e ’60 del diciannovesimo secolo era ben diverso da quello che conosciamo oggi fatto di finte e destrezza: si trattava ai tempi di caricare con coraggio, a testa bassa, sfruttando al meglio la propria prestanza fisica e i propri gomiti, cercando tuttalpiù di individuare un punto nello schieramento difensivo avversario particolarmente fragile.
Accadeva spesso, visto che era uso comune spedire chi mostrava poco coraggio offensivo nelle retrovie, una sorta di punizione che – va da se – non aiutava certo nella specializzazione del ruolo: bastava infatti che chi finiva a fare il difensore mostrasse la giusta grinta e determinazione ed ecco che veniva premiato con un nuovo spostamento in avanti.
Un caos che venne minimamente ordinato solo alcuni anni dopo la fondazione della FA, quando fu stabilito il ruolo del portiere (assente nelle prime regole) e quindi quelli di full-back e half-back. Lo schieramento in voga ai tempi del dribbling game, grossolanamente, si potrebbe riassumere in un 1-2-7.
Il “combination game”
Nel primo match internazionale ufficialmente riconosciuto svoltosi a Glasgow il 30 novembre del 1872 i padroni di casa della Scozia accolsero i maestri inglesi consapevoli di avere un gap da colmare che riguardava sia l’esperienza nel pur neonato sport sia la differente stazza fisica dovuta alla diversa alimentazione e preparazione atletica. Essi avevano però un vantaggio che si rivelò infine determinante nel pareggio a reti inviolate che ne conseguì, e cioè un maggiore affiatamento: tutti gli undici scozzesi infatti giocavano nello stesso club, il Queen’s Park di Glasgow tutt’ora esistente e che si barcamena in terza serie senza mai essere venuto meno ai propri principi dilettantistici.
Ai tempi vero e proprio squadrone, “i Ragni” dovevano il proprio soprannome sia alla maglietta a strisce orizzontali bianche e nere sia al frequente ricorso al passaggio – spesso laterale o all’indietro – che derivava dalla fitta ragnatela di passaggi che mostravano in ogni gara. Questa era frutto dell’influenza nello sviluppo della propria identità calcistica da parte dei club del nord d’Inghilterra, con cui i contatti erano logicamente più semplici, economici e frequenti.
Essi si presentarono dunque in campo con un 2-2-6 che favoriva appunto più opzioni per chi in possesso del pallone intendesse recapitarlo ad un compagno: era nato il combination game, che era stato sviluppato contemporaneamente anche in Inghilterra grazie al Royal Engineers Association Football Club. Questa era la rappresentativa calcistica dei genieri dell’esercito britannico, e oltre a prevedere numerosi scozzesi tra le proprie fila presentava anche un’altra peculiarità tutt’altro che comune nel calcio dell’epoca: mentre infatti le altre compagini schieravano ex-studenti ora professionisti che si ritrovavano a passare del tempo insieme quasi esclusivamente nel momento della gara, i Royal Engineers trascorrevano obbligatoriamente intere settimane impegnati nell’esercito, un periodo nel quale potevano provare e riprovare determinati movimenti e sviluppare un’affinità sconosciuta agli altri.
I “Sappers” (“Zappatori” per via del principale ruolo che avevano in battaglia, ovvero dissotterrare le mine nemiche) contravvenivano dunque nel calcio al proprio soprannome, mostrando un gioco ordinato e laborioso che li portò fino alla finale della prima edizione della FA Cup.
Nonostante la sconfitta patita contro i più tradizionalisti Wanderers, di cui comunque rispecchiavano l’1-2-7 pur interpretandolo con principi completamente diversi, i genieri di Sua Maestà avevano tracciato insieme agli scozzesi un solco che nel giro di qualche anno avrebbe portato il calcio a cambiare la sua stessa natura, passando da un primitivo “calcia e corri” a una vera e propria tattica organizzata.
Letture consigliate:
- “La Piramide Rovesciata”, Jonathan Wilson, Libreria dello Sport
- “TATTICA: principi, idee, evoluzione”, Francesco Scabar, Urbone Publishing
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