Leônidas, il “Diamante Nero”

Quasi ogni calciatore sogna un giorno di giocare i Mondiali con la maglia del proprio paese. Infatti, quasi tutti i più grandi calciatori della storia sono stati protagonisti nella Coppa del Mondo, a lungo e forse anche a tutt’oggi la vetrina più importante che il calcio offra.

Eppure ci sono stati grandi calciatori che ai Mondiali non hanno lasciato il segno: alcuni per essere parte di un movimento calcistico incapace di offrire una Nazionale abbastanza competitiva, ed è il caso del gallese Giggs, del nord-irlandese Best, dello svedese Ibrahimovic, del liberiano Weah e di molti altri.

Il grandissimo Alfredo Di Stefano (da molti considerato il più grande calciatore della storia, più di Pelé e Maradona) giocò sia con la Spagna che con l’Argentina, ma senza lasciare traccia: per entrare nella storia ha però vinto 5 Coppe dei Campioni consecutivamente, trascinando un Real Madrid zeppo di campioni sul tetto del mondo.

Ma il giocatore di cui oggi vorrei raccontare qualcosa, sconosciuto ai più in quanto simbolo di quel calcio dei pionieri mai abbastanza conosciuto, pur avendo deluso con la sua Nazionale in ben due Mondiali, è riuscito in una edizione ad essere il capocannoniere del torneo.

E poi, per tutti quelli che lo conoscono, è stato colui che ha inventato la rovesciata. Parliamo di Leônidas da Silva, per tutti semplicemente Leônidas, il Diamante Nero.

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Lutz Pfannenstiel, globetrotter inarrestabile

Ogni calciatore ha la sua storia. C’è chi da bambino sogna di giocare per la propria squadra del cuore, chi sogna di vincere coppe e trofei, giocare negli stadi più prestigiosi del mondo e magari vestire la maglia della Nazionale.

Per quei pochi che arrivano a realizzare questi sogni molti altri finiscono per essere piccole comparse nel grande racconto del calcio, magari giocando nelle divisioni minori e riuscendo comunque a fare del football il proprio lavoro ma con un pizzico di malinconia di quello che poteva essere e invece non è stato.

A volte è sfortuna, a volte mancanza di talento o di carattere, spesso una combinazione di tutte queste cose. C’è chi potrebbe deprimersi.

Ma questa è la storia di un calciatore che, pur dotato di un certo talento, ha deciso di vivere la sua vita calcistica in modo completamente diverso, inseguendo più la conoscenza che il denaro e la fama, più la crescita personale che quella sportiva. Finendo per avere una carriera unica ed inimitabile, una carriera da “Guinnes dei Primati” quasi impossibile da ripetere.

Finendo per diventare non il portiere di una squadra, o di un certo numero di squadre, o di una Nazionale, ma “il Portiere del Mondo”, un nomade inarrestabile affamato di calcio e voglia di conoscere le diverse realtà – calcistiche e non – del pianeta.

Questa è la storia di Lutz Pfannenstiel.

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#StranoCalcio01 – Eroi alternativi

Il calcio è bello perché è vario. Ogni Paese ha la sua storia calcistica, più o meno gloriosa, e quasi ogni Paese ha anche le sue incredibili storie urbane, curiose, epiche, che fanno capire perché si può amare il calcio anche lontano dai riflettori e dalle musiche della Champions League.

Oggi cerco di raccontarvi alcune di queste incredibili storie, sperando di strapparvi due risate…

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Abdon Porte, “il fantasma del Parque Central”

Nel calcio le bandiere non scompariranno mai. I soldi potranno comprare qualunque cosa, persino la felicità; talvolta avranno il potere di addestrare i giocatori al ruolo di trepidi soldati mercenari all’interno di una guerra combattuta fra società calcistiche. Il fenomeno odierno del calciomercato ha sicuramente avvalorato con forza questo assioma moderno.

La storia dimostra, però, che le cose possono andare diversamente, perché i calciatori sono esseri umani e, in quanto tali, possono amare una squadra o un club, al punto tale da un volersene mai separare.

È il caso di Zanetti dell’Inter, Del Piero della Juventus, Giggs del Manchester United, di Matt Le Tissier, “Dio” di Southampton: per non parlare del pittoresco Sait Altınordu, bandiera per 27 stagioni del club da cui prese il proprio cognome.

Ma se il fenomeno delle bandiere è vivo tutt’oggi, in un momento in cui i calciatori sono trattati come celebrità professioniste superpagate, immaginate cosa poteva essere un tempo, quando chi giocava lo faceva solo ed esclusivamente per passione, per l’urlo della folla.

La storia del calcio degli albori abbonda di giocatori che hanno vissuto per la propria squadra. Qualcuno è anche morto per onorare la propria bandiera, per servire la propria fede. E quella che state per leggere è la storia di uno di loro.

Questa è la storia di Abdon Porte, “il fantasma del Parque Central”.

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La storia di “Foquinha” Kerlon, campione di sfortuna

Lo chiamavano “Foquinha” per via del suo più noto colpo ad effetto: si alzava la palla sulla testa e filava via agli avversari, spesso grossi il doppio di lui, senza mai far toccare il pallone a terra. Ma, appunto, palleggiandolo con la testa. Un numero da circo. Un numero da foca. Foquinha, appunto.

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