Obdulio Varela, “El Negro Jefe”

Di una scuola calcistica che univa classe sopraffina e grinta feroce, Obdulio Varela fu perfetto rappresentante di quest’ultima qualità.

Centromediano metodista, era tanto ruvido e aggressivo quando la palla era agli avversari quanto elementare e grezzo quando la sfera se la ritrovava tra i piedi.

Quello che lo rendeva un campione era però il carisma, un carattere da leader di poche parole e molti fatti che ne fece il naturale capitano del Peñarol e dell’Uruguay che si apprestava a tornare – da imbattuto – sulle scene dei Mondiali dopo ben vent’anni.

Una naturale tendenza al comando che gli fece guadagnare il soprannome di El Negro Jefe (“Il Capo Nero”) a causa del colore della sua pelle e la somiglianza nel modo di giocare con il mitico Jefe Nasazzi, capitano dell’Uruguay Campione del Mondo nel 1930.

Aveva trentatré anni quando si svolsero i Mondiali in Brasile; aveva vinto tre campionati uruguaiani e una Copa Amèrica nel 1942 con la Nazionale, e con il passare degli anni aveva preso a interpretare il suo ruolo in modo più difensivo, un libero ante litteram, un difensore capace di impostare più che un vero e proprio centromediano metodista.

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27 gennaio: Il calcio e la memoria

“A qualcuno questa partita potrà forse apparire come una breve pausa di umanità in mezzo ad un orrore infinito. Ai miei occhi, invece, come a quelli dei testimoni di questi partita, questo momento di normalità è il vero orrore del campo.

Poiché possiamo, forse, pensare che i massacri siano finiti – anche se qua e là si ripetono, non troppo lontano da noi. Ma quella partita non è mai finita, è come se durasse ancora, ininterrottamente.”

(Giorgio Agamben in commento ad un episodio narrato da Primo Levi ne “I Sommersi e i Salvati”, in cui si fa menzione di una partita di calcio svoltasi all’interno di un capo di sterminio durante una pausa di lavoro, in cui si affrontarono i militanti delle SS e i membri delle unità speciali “Sonderkommando”, reclutati nelle file dei deportati)

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Calcio e Olocausto: Géza Kertész, “lo Schindler del calcio”

Se nel “Giorno della Memoria”, che viene celebrato ogni 27 gennaio in ricordo delle vittime della Shoah, si scorrono le pagine dei quotidiani sportivi e dei siti di riferimento, sono diversi i nomi dei personaggi legati al calcio che finirono vittima della follia nazista e che chi è interessato alla storia può scorrere.

Ebrei come Árpád Weisz, l’allenatore del primo grande Bologna e scopritore all’Inter di Giuseppe Meazza, il talentuoso Leon Sperling, il primo idolo dell’Ajax Eddy Hamel, il portentoso pioniere del calcio americano József Braun ed il bomber tedesco Julius Hirsch, che per la Germania aveva addirittura combattuto durante il primo conflitto mondiale.

Allargando il discorso ecco che si possono raccontare le storie di chi, non ebreo, si oppose comunque al nazismo e ne finì vittima: Matthias Sindelar, Milutin Ivković, Carlo Castellani e Vittorio Staccione. Un nome che invece è stato a lungo dimenticato è quello di Géza Kertész, recentemente soprannominato “lo Schindler del Catania”.

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Freddy Adu, “from Hero to Zero”

U.S.A., 4 ottobre 2005

In America esce il nuovo capitolo del videogioco di calcio più famoso del mondo, “FIFA ’06”.

In copertina, per il mercato yankee, troneggia Ronaldinho, idolo del Barcelona e che sarà a fine anno Pallone d’Oro.

Al suo fianco due giovani talenti continentali: il messicano Omar Bravo e il ghanese naturalizzato americano Freddy Adu.

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Roberto Chery, il portiere-poeta maledetto

roberto chery

Il Brasile adottò i colori attuali, dove spicca il giallo-oro, dopo la disfatta del “Maracanazo” ai Mondiali del 1950. Fino ad allora aveva vestito il bianco oppure il blu, mai ufficialmente il giallo.

Eppure una gara in cui la Seleção indossò la maglia gialla c’è stata: accadde nel 1919, il giallo (insieme al nero) era quello del Peñarol.

Ancora più curioso che la squadra avversaria, l’Argentina, indossasse la maglia “celeste” degli odiati rivali dell’Uruguay.

Le due Nazionali si sfidarono per l’inedito “Trofeo Roberto Chery”, la partita finì 3 a 3 tra applausi unanimi e grandi abbracci, il trofeo andò al Peñarol e l’incasso alla famiglia di tale Roberto Chery, scomparso il giorno precedente. Ma cos’era successo? E chi fu Roberto Chery?

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Thomas Brown Mitchell, il Mourinho dell’800

Fin dai suoi albori, il calcio fu in continua evoluzione dal punto di vista tattico: il primo modulo riconosciuto, paragonabile oggi ad un 2-3-5, fu praticato in modo vincente ad alti livelli dai Blackburn Rovers, capaci di vincere ben 5 volte la Coppa d’Inghilterra dal 1884 al 1891, con addirittura tre vittorie consecutive.

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Javi Poves, il rivoluzionario rinnegato

Quante volte, quando ci si ritrova a criticare quelle che riteniamo essere le ingiustizie del mondo e ad individuarne i colpevoli, ci sentiamo rispondere che si, però “fossi al loro posto agiresti allo stesso modo”? Del resto la famosa parabola della volpe e dell’uva è sempre stata attuale: in tanti si trovano a moralizzare su quanto guadagnino calciatori, politici o cantanti, ma ben pochi al loro posto rinuncerebbero a tutto questo, alla fama, al potere.

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Tutto calcio che Cola #01 – Onore a Messi, il Maradona del nuovo millennio

663 partite giocate e 506 reti segnate; primatista di gol segnati in un’edizione della Champions League; 33 triplette in carriera; 4 Champions League vinte, 26 trofei sollevati in totale fino ad oggi; titolare nel Barcelona dall’età di 18 anni, stessa cosa nell’Argentina di cui è il capitano; 5 volte Pallone d’Oro, unico nella storia; il tutto a 27 anni e mezzo nel momento in cui scrivo. Eppure, girovagando per Internet, è possibile trovare ancora qualcuno che non riconosce la grandezza di Leo Messi, e sono le volte in cui capisco che forse, scrivere di calcio, è una causa persa.

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“Calcio” (John Foot)

John Foot è uno storico inglese che si divide tra Milano e Londra, dove insegna storia contemporanea italiana: giunto nel nostro Paese per studiarlo, è rimasto rapito dalla nostra storia e dalla nostra religione, il calcio, tanto da dedicargli questo corposo volume di oltre 600 pagine edito da BUR Rizzoli.

“Calcio”, semplicemente questo è il titolo dell’opera di Foot, racconta l’arrivo del football in Italia così come avvenne, portato come in tutto il resto del mondo dai marinai e dai “missionari” inglesi e i primi appassionati italiani: scopriremo quindi che furono italiani i primi promotori di questa disciplina da noi, precisamente a Torino, dove persone come Edoardo Bosio e il Duca degli Abruzzi furono determinanti nell’organizzare le prime squadre e il primo campionato al pari dei più noti inglesi Spensley, Kilpin e Savage.

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Il volo spezzato di Giuliano Maiorana

Molto spesso si è portati a credere che il calcio sia un sistema perfetto, capace di raccontare con le sue classifiche soltanto grandi verità, un sistema dove se sei abbastanza bravo arriverai e se invece questo non avverrà il motivo risiederà soltanto nel tuo talento, evidentemente non sufficiente.

Chi racconta queste storie spesso dimentica che il successo del football risiede invece proprio nella sua imprevedibilità, che dipende anche – come ogni aspetto della vita – dal destino, dalla sfortuna, dal caso.

Così come un palo o una zolla d’erba possono determinare l’esito di una partita o di un torneo, un infortunio può cambiare per sempre il futuro di un calciatore.

È quello che accade a Giuliano Maiorana, straordinario talento la cui favola conquista l’Inghilterra calcistica a fine anni ’80 e che purtroppo però non avrà calcisticamente un lieto fine.

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Blackburn Olympic, gli operai che fecero l’impresa

La storia del calcio è costellata di episodi considerati ‘fondamentali’ per lo sviluppo stesso della disciplina: la decisione di vietare la possibilità di giocare il pallone con le mani, ad esempio, oppure l’invenzione della rete o la necessità di avere un arbitro, la fondazione dei primi club e l’organizzazione delle prime partite o dei primi tornei.

Ognuno di questi episodi è stato un passo in avanti nell’evoluzione che ha trasformato quello che a metà del XIX° secolo era un passatempo per giovani e ricchi studenti nello sport planetario di oggi, che smuove montagne di soldi e milioni di persone.

Se dovessimo però segnare un punto esatto in cui il football smise di essere quello dei primordi per diventare un vero e proprio gioco di squadra destinato al popolo si dovrebbe indicare l’edizione della FA Cup 1882/1883 vinta dal Blackburn Olympic.

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Herbert Chapman, l’inventore del Sistema

Da sempre tra l’Inghilterra e il resto del mondo, calcisticamente parlando, esiste una differenza fondamentale che risiede nella figura di chi siede in panchina: mentre in ogni parte del pianeta si parla di allenatore, nel Paese che ha dato vita al football questo ruolo viene chiamato manager.

La differenza non risiede soltanto nel nome, naturalmente, ma nello stesso ruolo che questi ricopre: mentre infatti l’allenatore ha il compito di mettere in campo nel modo migliore i giocatori che la società gli mette a disposizione, potendo al massimo dare qualche suggerimento ai vari direttori sportivi, nel Regno Unito il manager si occupa di tutto quel che riguarda la squadra, dall’allenamento al calciomercato, dai rinnovi contrattuali alla parte tattica.

Si potrebbe dire che è così da sempre, ma il primo degno di essere chiamato in questo modo fu un allenatore leggendario capace di vincere due campionati consecutivi con l’Huddersfield Town per poi, nel momento di maggior successo, spostarsi a Londra per far diventare l’Arsenal la superpotenza calcistica che oggi tutti conosciamo.

Quest’uomo, una delle figure più importanti nella storia del calcio, rispondeva al nome di Herbert Chapman, il primo vero manager che il football ricordi.

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