Di una scuola calcistica che univa classe sopraffina e grinta feroce, Obdulio Varela fu perfetto rappresentante di quest’ultima qualità.
Centromediano metodista, era tanto ruvido e aggressivo quando la palla era agli avversari quanto elementare e grezzo quando la sfera se la ritrovava tra i piedi.
Quello che lo rendeva un campione era però il carisma, un carattere da leader di poche parole e molti fatti che ne fece il naturale capitano del Peñarol e dell’Uruguay che si apprestava a tornare – da imbattuto – sulle scene dei Mondiali dopo ben vent’anni.
Una naturale tendenza al comando che gli fece guadagnare il soprannome di El Negro Jefe (“Il Capo Nero”) a causa del colore della sua pelle e la somiglianza nel modo di giocare con il mitico Jefe Nasazzi, capitano dell’Uruguay Campione del Mondo nel 1930.
Aveva trentatré anni quando si svolsero i Mondiali in Brasile; aveva vinto tre campionati uruguaiani e una Copa Amèrica nel 1942 con la Nazionale, e con il passare degli anni aveva preso a interpretare il suo ruolo in modo più difensivo, un libero ante litteram, un difensore capace di impostare più che un vero e proprio centromediano metodista.
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