Quante volte, quando ci si ritrova a criticare quelle che riteniamo essere le ingiustizie del mondo e ad individuarne i colpevoli, ci sentiamo rispondere che si, però “fossi al loro posto agiresti allo stesso modo”? Del resto la famosa parabola della volpe e dell’uva è sempre stata attuale: in tanti si trovano a moralizzare su quanto guadagnino calciatori, politici o cantanti, ma ben pochi al loro posto rinuncerebbero a tutto questo, alla fama, al potere.
Il calcio non fa certo differenza, eppure nella storia le voci fuori dal coro non sono mancate: la più famosa, negli ultimi anni, è quella dello spagnolo Javi Poves, che proprio quando ha raggiunto quello che per molti è un sogno – giocare in massima serie – ha realizzato che questo non era il mondo giusto per lui e senza pensarsi su due volte ha lasciato tutto, spinto da una coscienza più forte di fama e denaro. Dal bisogno di sentirsi uomo vero.
Nato a Madrid il 28 settembre del 1986, come molti bambini Javi comincia a giocare a calcio con gli amichetti per poi scoprire di essere più bravo della norma: talmente più bravo che finisce per entrare nelle giovanili del prestigioso Atlético Madrid. Forse è già in questi anni che il giovane difensore comincia a capire che ci sono cose di quel gioco che tanto ama che non riesce a digerire: la competizione estremizzata al massimo fin da giovanissimi, il dimenticatoio dove finisce chi non ce la fa e magari ha sacrificato un’intera vita per inseguire un traguardo irraggiungibile, l’assoluta mancanza di attenzione per il lato umano di ragazzini che – sono parole sue – vengono “trattati come bestie”. Eppure, pur con i suoi malumori, Javi resiste alle varie selezioni, e anche se quando compie la maggiore età non finisce con il passare in prima squadra – evento che peraltro capita a pochissimi – ha espresso abbastanza qualità da poter fare il calciatore professionista.
Intendiamoci. Javi è il classico giocatore troppo bravo per non farlo di mestiere ma non abbastanza da essere il nuovo Fernando Hierro. Non è un fenomeno, ecco, ma a pallone ci sa giocare. Ha semplicemente un carattere fin troppo particolare, che non gli permette di giocare a mente serena, che lo porta ad interessarsi – una volta finiti gli allenamenti – di cose che lui ritiene ben più importanti di un pallone che rotola. Dopo una stagione nella “squadra “B” della terza squadra cittadina, il Rayo Vallecano, Javi scivola nelle serie inferiori: una stagione al Las Rozas, una al CDA Navalcarnero, piccole realtà della capitale spagnola. Il calcio, visto dal basso, forse non è così brutto? Forse, ma improvvisamente la vita di Javi cambia, quando il suo nome arriva non si sa come a Manolo Preciado, tecnico dello Sporting Gijon. Che lo visiona, lo promuove e lo acquista. Più di un salto triplo per Poves, che a 22 anni pensava ormai che il grande treno fosse passato.
E invece quello che per molti è un sogno è appena cominciato: due stagioni di apprendistato nella “squadra B”, quella delle riserve, quindi il 21 maggio del 2011 arriva il debutto in Primera División. Il teatro è il “José Rico Pérez”, l’avversario i padroni di casa dell’Hércules, il risultato 0 a 0: ai più Javi Poves, subentrato nel finale, sembra tutto tranne che uno capitato di lì per caso, ulteriore dimostrazione di come il calcio sia un sistema non perfetto, che a volte rischia di lasciare – o lascia – fuori dal giro gente che non avrebbe nulla in meno di chi ne fa parte ma che semplicemente si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il debutto in massima serie è un sogno per molti, sarebbe un traguardo, ma per Javi è la fine. Dopo essere arrivato ai più alti livelli, e dopo aver avuto conferma di quanto quello che succede dietro le quinte non fa per lui, il ragazzo annuncia il suo ritiro. Molla tutto, a 24 anni, appena un mese dopo il debutto nel calcio che conta. La sua insofferenza, del resto, si era manifestata già prima: “È un bravo ragazzo, ma con una testa tutta sua” dirà il suo allenatore quando lo vede prima riconsegnare l’auto che la società gli ha donato (“Non ne ho bisogno, ne ho già una”) e poi chiedere al club di non essere pagato tramite bonifico bancario “per non permettere alle banche di speculare sui soldi”. La famiglia prova a dissuaderlo, pensa che sia un assurdo colpo di testa tipico di chi è giovane, ma Javi non vuole più saperne: in una conferenza stampa dichiara che non intende prostituirsi, che il calcio è solo corruzione e denaro, che più vai in alto e più perdi entusiasmo.
“Il calcio mi disgusta. Se non posso vivere una vita pulita in Spagna, allora lo farò in Birmania o ovunque nel mondo sia possibile”, dichiara. Ed è di parola. Nei tre anni che seguono dal suo ritiro visita oltre trenta Paesi nel mondo, vivendo a contatto con la povera gente e nutrendosi della loro genuinità, finalmente libero da catene o costrizioni. Tra le tappe il Senegal, dove si ammala di malaria: ne guarisce senza medicinali, affidandosi alle cure dei locali. Tra le tappe successive la Cambogia, dove una notte incappa in un temporale tremendo, quindi il Brasile, dove dorme sulla spiaggia. Pochi spiccioli in tasca, tanta voglia di imparare, di apprendere, di capire il mondo vero, reale. Senza alcun rimpianto per il mondo che ha abbandonato: “È stata la decisione migliore che ho preso in vita mia. Sono stato in alcuni dei Paesi più poveri al mondo, ho vissuto la cruda realtà, e ciò mi ha reso più umano. Il denaro che guadagnavo prima era sporco, corrotto.”
Dopo tre anni, infine, il ritorno a casa. E il ritorno al calcio. Javi Poves trova un ingaggio nell’Unión Deportiva San Sebastián de los Reyes, periferia di Madrid e del calcio che conta. Terza serie. I motivi? Non certo economici, semmai un bisogno di tornare alle radici, di ritrovare il calcio vero, quello che Javi ama fin da bambino. A Madrid, la sua città, dove intende vivere, farsi una famiglia, aprire un locale forse. Giocare a calcio, perché non è il calcio che odia, ma quello che vi è intorno, gli operai che vengono sfruttati, che muoiono, per costruire gli stadi. Lo ha visto in Qatar, lo ha visto in Brasile, ha toccato con mano l’indifferenza della FIFA. Eppure non è una vita facile la sua, oggi: Javi Poves non è più soltanto il “calciatore anti-sistema”, come fu soprannominato. No, per molti è anche un falso, un venduto: basta vederlo una sera a cena fuori, oppure a teatro, o vestito in modo elegante, ed ecco che chi ha creduto in lui si sente tradito, preso in giro. Né del sistema, dunque, né anti-sistema. Anche se lui la spiega in modo molto semplice: “Ho 28 anni e mi sento come se ne avessi 60, sono stanco. Ho detto le cose che ho detto perché semplicemente non mi piaceva il mondo in cui vivevo, che è falso e corrotto. Chi mi ha preso alla lettera è pazzo. Adesso sono un imprenditore, ho alcune idee, ma questa vita è un inganno, finisci per pagare tutto e ritrovarti schiavo. Faccio tutto questo per che cosa?” Non è facile uscire dal sistema in cui viviamo, forse non è neanche possibile, e Javi se ne è accorto: né dentro né fuori, né sistema né anti-sistema, l’ex-difensore ribelle si trova oggi ad essere rinnegato da entrambi i mondi per parole dette poco più che ventenne e a cui comunque diede un seguito pratico. Forse è proprio vero che più questo mondo va avanti e meno spazio rimane per i sognatori. Ma ben vengano, con tutti i loro difetti e le loro contraddizioni, personaggi come Javi Poves, capaci di ricordarci se non altro che alla fine il calcio è soltanto un gioco.
Fonti:
www.publico.pt