È successo giovedì, dopo una mattinata passata lontano dal web. Al telefono l’amico Tommaso, conduttore di “C’era una volta O Rei”, mi dice che vorrebbe fare una puntata su Cruijff. Che era già in programma, ma con quello che è successo…
“Cos’è successo?” chiedo. Un paio di secondi, il tempo di fare mente locale. Cosa potrà mai essere successo? Mali come il tumore ai polmoni, purtroppo, non lasciano scampo. E quando glielo avevano diagnosticato, lo scorso ottobre, eravamo in molti a immaginare che sarebbe stata solo questione di tempo.
Forse anche lui, abituato a non abbassare mai la testa, a lasciarsi turbare dalle sconfitte. Se è vero però che la morte è per tutti inevitabile, è vero anche che a maggior ragione debba contare come si è vissuti, quel che si è lasciato. È questo il pensiero che può consolare chi come me da giovedì si sente un po’ più solo, pensando allo sport che tanto ama e che ha perso sicuramente una delle sue più grandi icone. E che potranno arrivarne altre, come poi sono arrivate, ma nessuna sarà unica come lo fu lui.
Ho riflettuto a lungo su quanto sarebbe stato opportuno scrivere qualcosa di mio sul “mito Johan Cruijff”. Perché ho 37 anni, non pochi ma nemmeno sufficienti a poter dire che io c’ero, quando il più grande calciatore europeo di sempre stupiva il mondo folleggiando sui campi da gioco come nessuno aveva fatto prima e nessuno ha fatto dopo, segno di un’unicità totale quanto il calcio di cui è stato portabandiera.
Ciò che intendo dire è che la grandezza del “profeta del gol” – io come molti altri blogger più bravi e preparati di me – le persone della mia generazione e di quelle successive hanno soltanto potuto studiarla sui libri, intravederla nei video e immaginarla dai racconti di chi ci ha preceduto anagraficamente. E quindi forse si rischia di scrivere soltanto “scontate scontatezze”, parlando di un campione che non va certo scoperto alla morte come un qualsiasi musicista di nicchia o un pittore suburbano.
Su “1000 Cuori Rossoblù” ne ho raccontato vita e imprese, cercando di inquadrarne più che altro l’unicità e l’enorme incidenza che ha avuto in uno sport di cui non soltanto è stato protagonista indiscusso, alla pari o subito dietro dei grandissimi, ma di cui ha addirittura plasmato la realtà intorno a se stesso, vero spartiacque tra passato e modernità.
Per questo ne ho scritto comunque, pensando che un omaggio – un “post ai posteri” – sarebbe comunque servito nella miriade di parole a lui dedicate fin da quando fece la sua comparsa sulla ribalta mondiale, primissimi anni ’70.
Per questo ne scrivo adesso anche qui, consapevole che niente di nuovo aggiungerò su un campione che è stato giustamente conosciuto dai molti in ogni sua sfaccettatura anche meglio di come l’ho conosciuto io ma che – lo ripeto – è necessario visto che si è trattato di un personaggio epocale, dello spessore di chi per primo ebbe l’idea di prendere a calci un pallone, un innovatore dello stesso livello.
Cosa resterà di Johan Cruijff? Moltissimo, senza alcun dubbio. Campione e uomo vero, capace di ergersi dalla miseria grazie a una classe cristallina e a una volontà di ferro, come il grande Di Stefano prima di lui corse in un’epoca in cui molti sembravano camminare. Fu il primo giocatore davvero universale, giostrando da “falso nueve” ben prima che questo termine venisse coniato per descrivere quell’attaccante che non solo segna a profusione, ma che dalla posizione di centravanti arretra, svaria sulle fasce, imposta e si inserisce.
Prima di lui lo aveva fatto qualcun altro, lo racconta la storia: il grande Sindelar nel “Wunderteam” austriaco degli anni ’30, il fenomenale Hidegkuti “centravanti arretrato” nell’Aranycsapat ungherese dei primi anni ’50. Nessuno come lui però, al punto che fu soltanto dopo i Mondiali del 1974 che qualcuno capì che se invece di aspettare in area il pallone la punta centrale avesse arretrato avrebbe scombussolato i piani scolastici – ma fino a quel momento assai efficaci – di chi era abituato a francobollare le punte avversarie e a cercare di vincere per noia o per caso.
E pazienza se alla fine il “vecchio calcio” avrebbe vinto, in determinati frangenti: la storia di Cruijff insegna che si può essere grandi anche nella sconfitta, persino più grandi di chi vince.
Ecco, i Mondiali del 1974. Li vinse la Germania, ma quasi per tutti furono la ribalta dell’Olanda del total voetbaal, “l’Arancia Meccanica” simbolo di un Paese improvvisamente risvegliatosi dopo decenni di semi-anonimato e deciso a lasciare il segno e che nel calcio trovò una banda di eroi rapidi, universali, fortissimi e spavaldi.
Era l’Olanda di Jongbloed, portiere e tabaccaio, quella di Rep e Neeskens giocatori universali, di Krol e molti altri: di questo meccanismo Cruijff era il motore e il cervello, colui che già da giocatore sapeva leggere i tempi della partita ed adeguarsi in modo da rallentare, accelerare, incidere e scombinare. I compagni, fortissimi, erano ancora più forti seguendo le sue indicazioni, che arrivavano da un linguaggio non verbale straordinario.
Nessun giocatore ha saputo incidere come Johan nelle fortune di tre squadre – l’Ajax, il Barcelona, l’Olanda – che prima del suo avvento non erano mai state grandi come lo sarebbero state dopo il suo passaggio. I lancieri di Amsterdam, che lo avevano scoperto un po’ per caso provandolo in quanto figlio della donna delle pulizie, hanno alzato tre delle quattro Coppe dei Campioni vinte con lui in campo e assoluto protagonista.
Compresa la prima, impresa ripetuta a Barcelona da allenatore: oggi siamo abituati a vedere i blaugrana come a una squadra capace di fare incetta di trofei, ma la situazione era ben diversa fino alla finale di Coppa dei Campioni del 1992, quando una bomba su punizione di Koeman spezzò il sogno irripetibile della Sampdoria creando però di fatto la squadra che oggi appartiene a Luis Enrique, Messi, Neymar e Suarez.
C’era Johan Cruijff, in panchina, cultore di un calcio onesto, bello, alla ricerca della perfezione. Idealista nell’anima, come i più grandi artisti e rivoluzionari, tanto da essere incapace di scendere a compromessi.
Più che per i successi, Johan Cruijff sarà ricordato per le sconfitte. Come la Grande Ungheria, l’Olanda cadde sul più bello all’atto finale, dopo essere passata in vantaggio. E anche al Barcelona accadrà lo stesso, visto che più che per le tante vittorie in molti da noi ricorderanno più volentieri (spirito patriottico?) la bastonata rimediata nel 1994 quando il Milan di Capello, ampiamente sottovalutato alla vigilia, si sarebbe imposto nuovamente in finale con un roboante 4-0.
Una sconfitta incassata da una squadra che confinava un genio come Savićević sulla fascia e che per rinforzarsi aveva acquistato Desailly, mica Romário o Stoičkov. Legnate che avrebbero fatto vacillare anche il più puro dei sognatori, ma non il grande, immenso e arrogante Johan Cruijff, che diceva che è meglio perdere giocando alla propria maniera che vincere snaturandosi.
Che dentro di se sapeva forse che negli occhi resta impressa la prestazione, l’unicità, mentre i trofei dopo che li hai sollevati puoi anche gettarli, come fece con i compagni nel 1973, lasciando la terza Coppa dei Campioni consecutiva nella cesta delle maglie sporche, uno dei tanti gesti emblematici del più forte calciatore europeo della storia.
In un’epoca dove i giocatori indossavano le maglie numerate da 1 a 11 lui giocava con il 14 sulle spalle, in un’epoca dove ancora esistevano le bandiere lui fu imprenditore di se stesso, lasciando l’Ajax dopo il boicottaggio di alcuni compagni nella sua corsa annuale a una fascia di capitano che riteneva meritata e scontata e finendo in Spagna per diventare simbolo della Catalogna e dell’anti-franchismo.
Arrogante? Forse, ma di quell’arroganza che deve piacere molto ai catalani, quella di chi è vincente e sa di esserlo, anche se poi perde. Non è successo poi così spesso, perché Cruijff nel suo peregrinare ha saputo alzare innumerevoli trofei, conquistando anche tre volte il Pallone d’Oro quando ancora questo premio aveva un senso e definendo l’archetipo del calciatore-rock star che come tutti i geni aveva anche limiti umani e visioni folli, eccessive e straordinarie.
Come quelle che ho già citato, il numero 14, la Coppa dei Campioni con le maglie sporche, come la rimozione di una striscia dalla maglia per non fare pubblicità all’Adidas durante i Mondiali – lui uomo della Puma – o la preconizzazione da allenatore del famoso Tiki Taka, talmente azzeccata da far dire a Pep Guardiola che qualunque allenatore sia venuto dopo Cruijff al Barcelona si è semplicemente limitato a ritoccare qua e là con il pennello l’enorme affresco che il maestro Johan aveva dipinto, per se e per chi sarebbe venuto dopo.
E forse è proprio questo che resterà di Cruijff, ogni virgola di bel gioco e ogni rivoluzione reazionaria al calcio che vuole tutti al proprio posto, pronti ad eseguire il compitino e incapaci di prendersi responsabilità reali. Per questo e per molti altri motivi è giusto parlarne, raccontarne, anche se non lo si è visto giocare: perché quello che ha creato invece si, lo abbiamo vissuto, perché si può dire che c’è stato un calcio prima di Cruijff e uno dopo di lui.
Ecco cosa resterà del divino Johan: la bellezza del calcio spontaneo, libero, fuori dagli schemi. Le corse con il pallone ai piedi che in tanti, bambini quando lui era un ragazzo, hanno fatto sognando un giorno di emularne le gesta senza che qualcuno ci riuscisse davvero. E che ora, uomini, avranno bambini che ameranno il calcio perché passione dei genitori e a cui dovranno per forza spiegare chi fu Hendrik Johannes Cruijff, uno dei campioni più amati nella storia dello sport più amato al mondo.
La risposta è semplice: forse non il migliore di tutti – forse – ma certamente “il più unico“.
Per chi volesse approfondire ecco il mio articolo “da ospite”.
- “Addio a Johan Cruijff, profeta del bello del calcio”, Simone Cola, 1000 Cuori Rossoblù
Ed ecco alcuni articoli che ho letto sul web scritti da blogger di un certo spessore
- Verza, Fabio (25/03/2016) La parte migliore degli anni settanta, Storie del Boskov
- Scabar, Francesco (25/03/2016) Morto Johan Cruijff, profeta del calcio totale, L’Opinione Pubblica
- Galli Angeli, Gianmarco (24/03/2016) L’idea Johan Cruijff, Footbola