Quasi nessuno, in quella piccola casa di cura di Barbacena, sa chi sia quel gracile uomo che si aggira per i corridoi, percorrendoli avanti e indietro senza darsi pace.
Lo sguardo spiritato, non parla mai, se non per offendere chi come lui è giunto in quel luogo per attendere l’inevitabile o chi si prodiga per curarlo. Nei rari momenti di lucidità, quando può fumare una delle sue adorate sigarette, racconta storie incredibili.
Dice di essere stato un calciatore, “il più grande di sempre”; sostiene che Pelé, il giovane fenomeno che appena un anno prima ha portato per la prima volta il Brasile sul tetto del mondo calcistico, avrebbe soltanto potuto portargli la borsa; di avere avuto un tempo soldi come se piovessero dal cielo, e mille amanti, tra cui addirittura Evita Perón.
Tra gli infermieri sono in molti a sorridere compassionevoli, con pietà. Solo pochi tra loro sanno che è tutto vero, e riempiono la sua camera con i ritagli dei giornali che lo celebravano quando non si parlava che di lui.
Lo fanno anche se sanno che magari, pochi minuti dopo, in un attacco di rabbia e follia il paziente distruggerà tutto, gridando e scalciando, maledicendo un passato glorioso che è appena dietro l’angolo, ma che sembra così lontano.
Ormai in pochi ricordano chi fu Heleno de Freitas, “il principe maledetto”. La prima vera superstar del calcio brasiliano.
O Rei de Copacabana
Eppure, appena dieci anni prima, l’intero Paese era ai suoi piedi. Il più grande talento calcistico espresso dal Brasile negli anni ’40, l’idolo della tifoseria del Botafogo e l’uomo su cui tutti puntavano per prendersi quella Coppa Rimet che era sempre sfuggita per un soffio.
Nel 1930 la squadra si era presentata divisa dalle rivalità dei diversi stati brasiliani, nel 1934 aveva pagato l’inesperienza nell’affrontare il ruvido calcio europeo, nel 1938 soltanto la superbia aveva fermato la squadra di Leônidas ad un passo dalla finale.
Poi era arrivata la seconda guerra mondiale, che aveva rinviato a data da destinarsi l’edizione del 1942, quella che si sarebbe dovuta svolgere proprio in Brasile.
Ribelle nato
Heleno de Freitas nasce a São João Nepomuceno, stato di Minas Gerais, figlio di Oscar, ricco commerciante di caffè e zucchero.
Alla morte del padre la famiglia, composta dalla madre Maria e da cinque fratelli, si trasferisce a Rio de Janeiro e vive tra mille difficoltà. Qui, nonostante tutto, il giovane Heleno si fa uomo, studia con profitto e intanto fa il suo ingresso in una delle tante squadre che giocano sulla spiaggia di Copacabana, una consuetudine calcistica che, ieri come oggi, plasma i campioni verde-oro.
Non è forte, è fortissimo. Al punto da essere notato da Neném Prancha, personaggio quasi mitologico del calcio brasiliano, che gestisce una squadra di ragazzini che scopre sulle spiagge e nelle favelas: ne osserva decine al giorno, e con una sola occhiata può capire chi sfonderà nel professionismo. Naturalmente Heleno viene scelto.
Fin da ragazzo Heleno de Freitas è quello che gli americani definirebbero un “total package”.
Possiede tutto: eleganza nei movimenti, controllo di palla, dribbling, potenza fisica e grande aggressività, qualità quest’ultima che, non di rado, si rivelerà anche il suo più grande limite.
È per questo ad esempio che il Fluminense, dopo essersene invaghito, se ne libera; per tutto il resto, il Botafogo, ritrovatosi tra le mani questo potenziale campione, lo ingaggia.
La stella dell’Estrela Solitária
Non se ne pentirà: Heleno si afferma fin da subito come uno dei giocatori più interessanti delle giovanili del Fogão, soprattutto quando gli allenatori, esasperati dal suo gioco violento e pericoloso – e nel tentativo di limitarne le frequenti sanzioni disciplinari – lo spostano dalla difesa all’attacco.
Centravanti unico e totale, ripaga l’intuizione segnando caterve di gol e guadagnandosi ben presto un posto in prima squadra, dove l’allenatore sta tentando di trovare un sostituto per l’anziano Carvalho Leite, cinque volte capocannoniere del Campionato Carioca e bomber storico del club.
Affrontando ogni partita come una questione di onore e una sfida personale, Heleno dimostra da subito di che pasta è fatto: non ha timore di niente e di nessuno, sfida qualunque avversario sia sul piano tecnico che su quello fisico, ai falli reagisce con veemenza, ama provocare chiunque gli capiti a tiro.
E se è vero che il giocare di squadra non è propriamente il suo mestiere, compagni e tecnico sono felici di perdonargli qualsiasi follia, in cambio delle vagonate di gol che realizza.
Conquistato ben presto il posto di centravanti titolare nel Botafogo, ne diventa ben presto l’idolo, il leader, guidando la squadra in imprese incredibili che purtroppo, però, non sfoceranno mai nella vittoria del Campionato, mancata più volte per un niente e praticamente mai per suo demerito.
Dottor Jekyll e Mister Hyde
Isterico, nervoso, istintivo, polemico; insulta avversari e compagni, arbitri e tifosi. Poi prende il pallone e segna, zittendo tutti.
Accade sempre, accadrà per 204 volte in 233 partite; in una di queste segna quattro reti all’America che, durante il primo tempo, aveva chiuso in vantaggio per 3-0: i giornali titoleranno, il giorno dopo, “Heleno batte America 4-3”.
E mentre sul campo è un idolo, fuori la sua fama sembra andare persino oltre: non c’è donna in tutta Rio de Janeiro che sappia resistere al suo fascino, al suo vivere la vita momento per momento, come una vera rockstar.
I giornali si sprecano sulle sue relazioni, ne ha tante, troppe, e del resto è uno che non vuole negarsi i piaceri della vita: le donne, il buon vino, le sigarette che consuma in quantità smodata. Parla il francese e l’inglese, ha gusti raffinati, legge Dostojevski e si diletta di filosofia, la parola forbita di chi ha studiato molto.
Incredibile riconoscere, nell’Heleno fuori dal rettangolo di gioco, quel pazzo furioso che in campo spintona gli arbitri e persino i compagni, che salta gli allenamenti perché “tanto non ne ho bisogno”, che si presenta al campo in moto, solitario, bello e dannato. In ritardo, spesso dopo una notte in bianco.
Il look, quello si, è l’unico tratto in comune che hanno le sue personalità da Dottor Jekyll e Mister Hyde: si pettina con molta attenzione, utilizza una gelatina che presto diventa oggetto di culto tra i giovani tifosi brasiliani, che in una partita lo vedono andare a segno quattro volte e sempre di testa.
Heleno de Freitas, la prima rockstar del calcio
Reti particolari, non certo da tipo qualunque; visto che si dice che gioca a calcio da solo, per non smentire i suoi critici, Heleno si “serve l’assist” ogni volta, entrando in area, calciando alto il pallone in cielo e poi spedendolo in rete di testa.
E ad ogni gol una corsa sotto la curva, la mano a riaggiustare i capelli. La folla in delirio.
Uno così non può che finire nella Nazionale del Brasile, che attende la fine della guerra per organizzare i Mondiali e vincerli. Saltata l’edizione del 1942, per la mancanza di tempi tecnici e organizzativi salta pure quella del 1946.
Sarà il 1950 l’anno in cui si giocheranno i quarti Mondiali di calcio: nel Paese c’è grande mobilitazione, la consapevolezza di avere una squadra fortissima induce il Brasile, che si è appena lasciato alle spalle la dittatura fascista chiamata “Estadio Novo” guidata da Getùlio Vargas, a guardare al futuro con ottimismo.
Nelle intenzioni dei nuovi governanti, tutti i brasiliani troveranno consolazione nel vedere la loro Nazionale fare a pezzi i rivali all’interno del più grande stadio del mondo, il “Maracanà”, che sarà ultimato giusto in tempo per la rassegna iridata.
Nel frattempo il Brasile partecipa al “Campeonato Sudamericano de Football” in Cile, nel 1945, schierando un attacco che vede la presenza sia di Heleno che del suo grande rivale Ademir, stella del Vasco da Gama.
Heleno ancora una volta, come con il Botafogo, fa la sua parte segnando 6 reti e laureandosi capocannoniere insieme all’argentino Méndez, ma purtroppo il Brasile cade nello scontro decisivo contro l’Albiceleste e si piazza secondo.
Eterno secondo
Accade lo stesso anche l’anno dopo; ancora una volta è l’Argentina padrona di casa a superare i verde-oro nella partita decisiva. Alla fine del primo tempo, conclusosi in una zuffa di proporzioni epiche, gli argentini vanno a bussare allo spogliatoio dei brasiliani accompagnati da alcuni tifosi.
Il CT brasiliano Flávio Costa proibisce ai suoi di rispondere, ma ovviamente Heleno, orgoglioso e incapace di resistere alle provocazioni, esce dallo stanzino sfidando gli avversari e finendo per dare e ricevere calci e pugni.
Quando il 1950 si avvicina, Heleno è sempre un idolo dei tifosi del Botafogo e lo spauracchio per chiunque ne sia avversario.
Tuttavia accade che, dopo l’ennesimo campionato sfumato all’ultimo, il campione esploda in un duro e violento sfogo con i compagni, da lui ritenuti degli incapaci, indegni di vestire la maglia della “stella solitaria”.
Con una distanza ormai incolmabile creatasi tra lui e il resto della squadra, alla dirigenza non rimane che cederlo, dopo la bellezza di 11 stagioni: non sarà un addio facile, il Botafogo a dire la verità respinge la prima offerta del Boca Juniors, asserendo che neanche per il doppio il campione si sarebbe mosso.
Addio Fogão
Gli argentini, contestati in patria per un rendimento altalenante, triplicano l’offerta, e allora il presidente del Fogão deve capitolare: sono tanti, troppi soldi, l’offerta più alta mai fatta per un calciatore in tutto il Brasile.
E in Argentina Heleno è subito una star, segna al debutto e diventa ben presto un idolo dei suoi nuovi tifosi: si inserisce anche nel tessuto sociale, diventando ben presto cliente affezionato di ogni night, ogni ristorante, ogni locale alla moda.
Si parlerà anche di una relazione segreta con Evita Perón, ma forse questa è una storia di fantasia.
Quello che invece è reale, sono le due personalità che Heleno porta con sé: quella dell’uomo colto e raffinato fuori dal campo e quella della furia iconoclasta quando le cose non vanno come lui desidera.
I Mondiali mancati
Succede anche al Boca, dove non prendono bene i suoi atteggiamenti da star affermata e il suo rifiuto di passare il pallone a chi non considera degno di tale onore. In pochi mesi è già finita, Heleno saluta tutti e torna in Brasile. Giusto in tempo per i Mondiali, pensano tutti.
Una volta constatato che al Botafogo – squadra per cui avrebbe giocato anche gratis, a suo dire – non sarà più possibile tornare, vista la terra bruciata che si è lasciato alle spalle, Heleno trova posto al Vasco da Gama.
Proprio così, il club del suo rivale Ademir e del CT Flávio Costa, che allena allo stesso tempo anche la Nazionale. Il tecnico, per far posto al nuovo entrato, sposta all’ala proprio Ademir, che umilmente accetta la decisione nonostante sia un campione ormai affermato.
Ma a Heleno non basta, lui vuole essere il leader della squadra, vuole che tutti dipendano da lui come ai tempi del Botafogo. L’intesa con Ademir non decolla, le reti sono comunque numerose (19 in 24 partite) ma un episodio segna la fine delle sue possibilità di esibirsi al Mondiale.
Dopo aver come sua abitudine ripreso con violenza un compagno colpevole di un passaggio sbagliato in allenamento, Heleno viene a sua volta ripreso da Costa, che lo allontana dal campo.
Al termine della sessione però, accade l’impensabile: il giocatore avvicina il tecnico, il quale attende le sue scuse ma si trova invece una pistola puntata alla testa, con il giocatore che la brandisce che furiosamente esige delle scuse; è scarica, è uno scherzo, dirà poi Heleno.
Ma, conoscendolo, chi può dirlo con certezza?
Heleno, O Jogadore
Costa, in quel momento, lo esclude per sempre dai suoi piani, e ovviamente anche dal Brasile. Nei Mondiali in casa, nel 1950, sarà Ademir la stella dell’attacco di una squadra bellissima ma troppo sicura di se, e che crollerà proprio sul più bello nella sfida finale con l’Uruguay.
Non saranno in pochi a pensare che in quella squadra tecnicamente superba ma priva di personalità uno come Heleno avrebbe potuto fare la differenza.
Persa la Nazionale, al campione non rimane che vendersi al miglior offerente, e in quegli anni il miglior offerente è il ricco – e illegale – campionato colombiano, finanziato con i soldi del narcotraffico e noto come “El Dorado”.
Lo frequentano i migliori campioni dell’epoca in Sudamerica: Di Stefano, Pedernera, Tim. A questi si aggiunge anche Heleno, coperto d’oro per vestire la maglia del Junior Barranquilla, dove si segnala per le solite cose: intemperanze caratteriali, atteggiamenti da divo, donne – si dice non ci sia prostituta in città che non lo abbia “conosciuto” – alcol e sigarette.
E gol, tanti gol. Non c’è niente che Heleno non sia capace di fare, non c’è niente che Heleno non possa inventarsi in ogni momento, quando il pallone è tra i piedi e sente, da vero divo, che il pubblico è con il fiato sospeso, gli occhi solo per lui.
Gioca talmente bene che i tifosi gli dedicano una statua, che recita alla base “O Jogadore”, perché Heleno è per tutti “Il Giocatore”, quello definitivo.
Le sue condizioni, nel soggiorno colombiano, si sono però aggravate di colpo: le conseguenze della sifilide (contratta ai tempi del Botafogo e mai curata nonostante le numerose richieste di familiari e medici) si manifestano violente con tremori, febbri e deliri.
Un penoso declino
I suoi scatti d’ira diventano sempre più violenti, la vista a volte si annebbia, il linguaggio è sempre più sboccato. Il campione, persa l’eleganza che lo contraddistingueva dentro e fuori dal campo, sembra pazzo, ancora di più di quanto già non lo sembrasse prima.
In una stagione al Santos è tornato quello di sempre, tanti gol, tante liti; nuovamente mostrandosi intrattabile oltre ogni immaginazione viene, infine, allontanato dalla squadra.
Se è vero che è sempre bastato un nonnulla per incendiare l’animo di questo ingestibile campione, allora immaginate la scena quando i dottori dell’America, il suo ultimo club, quello che anni prima sconfisse praticamente da solo, gli comunicano che dovrà sottoporsi ad una serie di cure mediche per poter continuare a giocare.
L’uomo che non ha paura di niente e che non ascolta mai nessuno è convinto che vogliano fregarlo, una forma di paranoia che la malattia ha accentuato a dismisura, ma che era presente da sempre.
Da quando Heleno si era reso conto di essere esageratamente superiore ai compagni e che questi, consci di tale verità, avrebbero dovuto per forza invidiarlo: il successo accumulato presso i tifosi negli anni, gli applausi, gli hanno dato alla testa. Come la malattia, come l’alcol, come l’etere con cui imbeve sempre più frequentemente i suoi eleganti fazzoletti di seta per poi annusarli fin quasi allo svenimento.
Il tramonto di “Gilda”
Con l’America gioca appena una partita, fornendo una prestazione penosa: la palla gli schizza intorno inafferrabile, sfuggendo al suo sguardo, le gambe non riescono a fare quei numeri che un tempo venivano naturali.
E figuriamoci se Heleno è uno che si arrende: ci prova e ci riprova, in quelli che saranno i suoi ultimi 90 minuti, a tornare quello che fu. Ma non c’è niente da fare, e all’ennesima palla persa crolla a terra quasi in lacrime, deriso dagli spalti mentre prende a pugni con rabbia il terreno di gioco.
È quello del “Maracanà”, lo stadio che lo avrebbe dovuto vedere eroe e dove invece ha finito per giocare una sola gara.
L’ultima.
Lascia il campo tristemente, deriso da uno stadio intero che appena pochi anni prima avrebbe atteso la sua presenza consapevole che questa, da sola, avrebbe ripagato il costo del biglietto.
La sifilide mai curata non gli offre scampo. Incapace di prendersi cura di se stesso, è assistito dal fratello Oscar e poi viene internato in una casa di cura che ha tutti i connotati di un manicomio, lontano dal clamore della frenetica vita di Rio, la città dove un tempo è stato un re.
Soldi non ne ha, li ha spesi tutti in donne, vino, auto e sigarette. Rimasto solo, viene ben presto dimenticato da un Paese che forgia continuamente nuovi idoli da applaudire e nuovi sogni da inseguire.
Heleno delira, ha improvvisi e violenti attacchi di collera, ai quali alterna lunghi stati catatonici, durante i quali non risponde ad alcun stimolo esterno e forse si perde nel ricordo di quando era o Gilda dos gramados, “la Gilda dei campi di gioco”, come lo chiamavano i tifosi avversari.
O Principe Maldito
Gilda come Rita Hayworth, l’attrice di Hollywood bella e capricciosa, come bello e capriccioso fu lui quando il mondo era ai suoi piedi, in attesa dell’ennesima magia.
Nel 1958 il Brasile vince la Coppa del Mondo per la prima volta nella storia. A guidare la squadra un ragazzo giovanissimo, Pelé. Al suo fianco Garrincha, sbilenco e fenomenale nuovo campione del “suo” Botafogo, capace con i suoi dribbling inarrestabili di strappargli l’ultima cosa che gli è rimasta, l’amore incondizionato di un popolo intero.
Heleno è ormai semi-paralizzato, quasi completamente cieco, pesa meno di 40 chili e ha perso tutti i denti. Un anno dopo, l’8 novembre del 1959, si spegne per sempre. Ha appena 39 anni, anche se ne dimostra quasi il doppio, tanto la malattia lo ha sfinito.
E quando arrivano diverse autorità a prelevarne il cadavere, tutti, in quella piccola clinica di Barbacena, si rendono conto che quel pazzo diceva il vero: era davvero Heleno de Freitas. O Principe Maldito.
Il “Principe Maledetto”, il più grande campione di calcio della sua epoca.
SITOGRAFIA:
- (20/03/2012) Craque Imortal – Heleno de Freitas, Imortais do Futebol
- Tuleski, Vanessa (novembre 2012) Heleno, antagonista de si mesmo, Constelar
- Wilson, Jonathan (11/12/2012) The forgotten story of…Heleno de Freitas, The Guardian
BIBLIOGRAFIA:
- Neves, Marcos Eduardo (2006) Nunca houve um homem como Heleno, Ediouro
FILMOGRAFIA:
- (2012) Heleno, regia di José Henrique Fonseca