José Leandro Andrade, “la Meraviglia Nera”

In principio fu Montevideo, in principio fu l’Uruguay. Il luogo dove si svolsero i primi Mondiali di sempre, datati 1930; la squadra che per prima alzò al cielo la Coppa Rimet.

Una compagine che univa classe e forza. La prima rappresentata da un attacco di artisti quali El Vasquito Pedro Cea, el Divino Manco Castro e Héctor Scarone, soprannominato el Gardel del fútbol per la sua eleganza infinita; la seconda sintetizzata nella durezza e nella tenacia di capitan Nasazzi, el Gran Mariscal, leader di una difesa a tratti insuperabile.

Tra difesa e attacco lui, José Leandro Andrade, mirabile sintesi di tutte le qualità che possono servire per creare il calciatore perfetto: fisico, eleganza, capacità di trattare la sfera e abilità nell’essere ugualmente efficace in entrambe le fasi di gioco.

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Harry Welfare, da spirito libero a idolo Fluzão

Nonostante il calcio moderno, soprattutto dopo la sentenza Bosman del 1995, sia ormai in gran parte un incredibile mix di culture diverse da loro, tanto che non ha quasi più senso parlare di identità calcistiche nazionali o di “stranieri”, il calcio brasiliano appare ancora oggi un mondo a se, dove i “non brasiliani”, calciatori o manager, appaiono autentiche mosche bianche.

Merito di un Paese, il Brasile, che ha milioni di cittadini e che sforna talenti a getto continuo anche per via di una passione per il futebol che spesso si trasforma in vera e propria religione, coincidenze che portano i tanti club che fanno parte della CBF (la Confederação Brasileira de Futebol) a preferire, anche per motivi economici, la coltivazione delle promesse indigene all’acquisto di calciatori stranieri che magari, poi, poco sanno del calcio brasiliano e che faticherebbero ad ambientarcisi.

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“Juan” John Harley, o della nascita del calcio in Uruguay

Nella storia secolare del calcio vi è un antico detto: “Se gli inglesi hanno inventato il football, gli scozzesi hanno insegnato al mondo come questo andava giocato”. Si tratta di un’affermazione del tutto veritiera: se è innegabile che il nostro amato gioco abbia preso forma e sostanza a Londra nella metà dell’800, infatti, è impossibile negare che i primi maestri della tattica siano stati gli uomini delle Highlands, teorici del primo gioco organizzato, il passing game, e abili a superare prima e influenzare poi il modo di giocare di coloro che, forse a torto, si ritenevano i maestri.

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Julinho, il brasiliano dal cuore viola

julinho

“Un’ala può arrivare a Julinho, non oltre”.

Nella sua lunga carriera, che lo aveva visto affermarsi come uno dei più grandi centromediani dell’epoca – escluso dalla Nazionale di Pozzo due volte mondiale solo perché “troppo bravo” – Fulvio Bernardini di fenomenali esterni d’attacco ne aveva visti, basti pensare a nomi come “Mumo” Orsi o Carlo Reguzzoni.

Nessuno però superiore a Júlio Botelho, Julinho, il campione brasiliano che il buon Fuffo indicò ai dirigenti del club che stava allenando, la Fiorentina, nell’estate del 1955. Stella assoluta della Portuguesa, titolare inamovibile nel Brasile che si era arreso ai Mondiali del 1954 soltanto alla Grande Ungheria di Ferenc Puskás – al termine di una sfida talmente dura e violenta da passare alla storia calcistica come “la battaglia di Berna” – era forse impensabile che un calciatore di tale, enorme, caratura potesse arrivare a vestire la maglia viola. 

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Sergio Livingstone “El Sapo”, la storia del più grande portiere cileno mai esistito

Sergio Livingstone

Per qualcuno è stato il miglior portiere della storia del calcio.

E anche se il nome di Sergio Livingstone non viene ricordato al pari dei più famosi Lev Jašin, Américo Tesorieri, Ricardo Zamora e Dino Zoff, leggendo i racconti di chi ha assistito alle partite in cui questo straordinario portero cileno risulta facile comprendere perché negli anni ’40 qualcuno potesse dire che il più grande guardiano dei pali di sempre fosse cileno.

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Jaguaré Bezerra de Vasconcelos, i racconti incredibili di “Araña Negra”

A Marsiglia, il portiere brasiliano Jaguaré Bezerra de Vasconcelos se lo ricordano molto bene. Uno dei primi idoli del club, personaggio eccentrico e abile tra i pali al punto da guadagnarsi il soprannome di “El Jaguar“, Vasconcelos in Francia ci era arrivato dopo una vita a dir poco avventurosa, che dal natio Brasile lo aveva portato in Europa alla ricerca di soldi e fama.

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Obdulio Varela, “El Negro Jefe”

Di una scuola calcistica che univa classe sopraffina e grinta feroce, Obdulio Varela fu perfetto rappresentante di quest’ultima qualità.

Centromediano metodista, era tanto ruvido e aggressivo quando la palla era agli avversari quanto elementare e grezzo quando la sfera se la ritrovava tra i piedi.

Quello che lo rendeva un campione era però il carisma, un carattere da leader di poche parole e molti fatti che ne fece il naturale capitano del Peñarol e dell’Uruguay che si apprestava a tornare – da imbattuto – sulle scene dei Mondiali dopo ben vent’anni.

Una naturale tendenza al comando che gli fece guadagnare il soprannome di El Negro Jefe (“Il Capo Nero”) a causa del colore della sua pelle e la somiglianza nel modo di giocare con il mitico Jefe Nasazzi, capitano dell’Uruguay Campione del Mondo nel 1930.

Aveva trentatré anni quando si svolsero i Mondiali in Brasile; aveva vinto tre campionati uruguaiani e una Copa Amèrica nel 1942 con la Nazionale, e con il passare degli anni aveva preso a interpretare il suo ruolo in modo più difensivo, un libero ante litteram, un difensore capace di impostare più che un vero e proprio centromediano metodista.

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Roberto Chery, il portiere-poeta maledetto

roberto chery

Il Brasile adottò i colori attuali, dove spicca il giallo-oro, dopo la disfatta del “Maracanazo” ai Mondiali del 1950. Fino ad allora aveva vestito il bianco oppure il blu, mai ufficialmente il giallo.

Eppure una gara in cui la Seleção indossò la maglia gialla c’è stata: accadde nel 1919, il giallo (insieme al nero) era quello del Peñarol.

Ancora più curioso che la squadra avversaria, l’Argentina, indossasse la maglia “celeste” degli odiati rivali dell’Uruguay.

Le due Nazionali si sfidarono per l’inedito “Trofeo Roberto Chery”, la partita finì 3 a 3 tra applausi unanimi e grandi abbracci, il trofeo andò al Peñarol e l’incasso alla famiglia di tale Roberto Chery, scomparso il giorno precedente. Ma cos’era successo? E chi fu Roberto Chery?

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Thomas Donohoe

Sarà sempre lunga la disputa su chi abbia inventato il football nella forma in cui lo conosciamo oggi, se gli inglesi che ne gettarono le basi oppure gli scozzesi, fautori del passing game e delle prime organizzazioni tattiche di sempre.

Anche su chi abbia portato il football in Brasile, trasformandolo in futebol, la diatriba è nota, anche se in questo caso riguarda due cittadini scozzesi: uno di questi, Charles Miller, in Brasile era nato – figlio di immigrati venuti a costruire le ferrovie – e dopo aver studiato in Inghilterra era tornato formando la prima lega calcistica, organizzatrice del primo campionato ufficiale della storia.

Qualcun altro lo aveva però preceduto, seppur di poco e con modalità ed effetti ben più modesti.

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Julio Libonatti, il primo oriundo

Quel mattino di gennaio del 1938, al porto che da Genova lo avrebbe riportato in Argentina, Julio Libonatti guardò per l’ultima volta il Paese che era stato dei suoi avi e in cui lui era tornato come campione di “Foot-Ball”.

Così era ancora chiamato il calcio in Italia, quando il giovane centravanti argentino vi aveva messo per la prima volta piede. Da quel giorno molte cose erano cambiate: l’ascesa al potere del Fascismo aveva trasformato il Paese e infine anche il gioco stesso, facendo diventare l’Italia una compagine prima rispettata e poi temuta.

Gli azzurri, nel momento in cui Libonatti fissava per l’ultima volta il mare di Genova, erano diventati i più forti al mondo. Campioni, in casa, nel contestato Mondiale del 1934.

Pochi mesi dopo si sarebbero confermati in Francia, spazzando via le malelingue che avevano parlato di una vittoria, quella di quattro anni prima, politica. Voluta e ottenuta con la forza dal Duce.

No, gli Azzurri erano ormai una vera e propria forza. Merito anche dei tanti oriundi, gli argentini “di ritorno” in Italia, naturalizzati per fare la differenza in campo con la Nazionale. Campioni come Raimundo Orsi, Luisito Monti, Enrique Guaita, Michele Andreolo, talenti determinanti che avevano dato la svolta al calcio italiano. Il capostipite dei quali, indiscutibilmente, era stato lui, Julio Libonatti da Rosario, stella del Torino.

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L’Alumni Athletic Club e la “familia Brown”, le radici scozzesi del fútbol argentino

Sulle origini del calcio gli storici discutono da tempo, ma la teoria comune e ormai accettata è la seguente: se è vero che il football fu ideato dagli inglesi, furono gli scozzesi a codificarlo attraverso regole e moduli tattici, trasformandolo da sport di pura valenza agonistica a arte vera e propria.

Sia quel che sia, è certo invece che scozzesi furono i pionieri del calcio argentino, la scuola che in seguito ha dato al mondo campioni assoluti come Alfredo Di Stefano, Diego Maradona e Lionel Messi, tra i migliori calciatori della storia.

Molto tempo è passato e molte cose sono cambiate da quei giorni di fine ‘800, quando numerose famiglie di latifondisti britannici giunsero sulle coste argentine per avviare le proprie attività imprenditoriali: alcuni membri di queste famiglie, sotto braccio, portavano con se un pallone da football.

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