Che il calcio attuale sappia regalare ancora grandi emozioni e magie è innegabile anche per un romantico – ma non per questo cieco e “contro il calcio moderno” – come me: le imprese in FA Cup del Sutton United e del Lincoln, la Premier League vinta dal Leicester City la scorsa stagione, per dire, sono eventi che hanno coinvolto milioni di appassionati, a testimonianza che il calcio è in possesso di un’anima immortale, la stessa che coinvolse i pionieri fondatori della Football Association nel 1863 e che durerà per sempre, fino a quando un bambino – per dirla alla Galeano, “prenderà a calci un pallone”.
In Italia, però, si può dire che da tempo si registra calma piatta: la Juventus domina, il Napoli se la gioca con il Real Madrid ma perde e si becca anche le invettive immotivate del suo presidente, Inter e Milan cercano di tornare grandi e già da fine gennaio le partite della nostra Serie A si sono trasformate in una sorta di serie di amichevoli buone solo per gli scommettitori, forse, mentre i giocatori – quelli lontani dall’Europa e ormai salvi, e non sono pochi – cercano in qualche maniera di sfangarla fino alla giornata numero 38.
Certo, c’è stata la scorsa stagione, il semi-exploit dell’Alessandria in Coppa Italia, ma quello è successo fondamentalmente perché molte squadre della nostra Serie A sono ormai inadeguate e perché in fondo della coppa nazionale non importa a nessuno fino alle semifinali. Per un’emozione vera c’è voluto il ritorno in panchina di un personaggio che tanto ha fatto e che tanto farà discutere, uno che lo ami o lo odi, un allenatore che per me è una fortuna riavere tra noi: sto parlando, ovviamente, di Zdeněk Zeman.
Partiamo da un presupposto: il nostro calcio, piaccia o non piaccia, vive un momento dove a essere buoni si può dire che ci si annoia mortalmente. Certo, tatticamente siamo ancora ad un livello più che alto, e da noi più che da altri una squadra di buon spessore tecnico può trovarsi in difficoltà contro avversari magari meno bravi ma ben organizzati.
Eppure non solo non esprimiamo un calcio di alto livello, e i risultati in Europa sono lì a testimoniarlo da anni, ma anche a livello di vere “impronte tattiche” c’è ben poco da dire: quale squadra esprime un gioco particolare e unico? Dove si vede la mano dell’allenatore? In quanti possono dire effettivamente di divertirsi guardando una partita?
Zdeněk Zeman, piaccia o non piaccia, è un allenatore che “si sente”: il suo 4-3-3 è storia, le sue squadre le vedi, le riconosceresti anche se giocassero ventidue robot tutti uguali. Scorgeresti i tagli, le verticalizzazioni, il pressing sfrenato, la difesa a centrocampo, il cercare sempre e comunque di giocare il pallone, ovunque questo si trovi. Non è poco nelle grigie “mezze misure” che ci sono oggi, dove l’unico che mostra qualcosa di nuovo è Massimiliano Allegri con la sua “Juve a 5 stelle” ma soltanto perché, diciamocelo, può permetterselo.
Basta questo per essere un mito? Ovviamente no, ma sarebbe ridicolo ridurre uno come Zeman soltanto a questo, “quello del 4-3-3 tutti all’attacco”. Il tecnico boemo è molto, molto di più: è stato studiato dai più grandi, ha lanciato una pletora di stelle nel calcio ad alti livelli, ha operato autentici miracoli di provincia che soltanto chi nega la storia potrà negare.
Il Foggia di Zemanlandia era soprattutto opera sua, il Pescara che frantumò ogni record in B era soprattutto opera sua. E chi dice che Rambaudi, Baiano e Signori prima e Verratti, Insigne e Immobile poi siano stati talenti che sarebbero esplosi comunque sa che sostiene qualcosa di cui non avremo mai la riprova. Dal mio punto di vista, ovviamente contestabile, è impensabile che un allenatore non contribuisca a rendere grande un giocatore almeno quanto il contrario. A maggior ragione, poi, se si parla di talenti offensivi che con ogni probabilità avrebbero faticato di più a esprimere le proprie qualità, a svilupparle, senza un gioco che ne valorizzasse le qualità.
Il bello di Zeman è che se ne discute, e sempre se ne discuterà, ma se si toglie dalla conversazione un fattore come i trofei alzati non se ne parlerebbe neanche. Zeman è uno straordinario educatore, un cultore del bel calcio, del sacrificio, del principio che il lavoro duro può superare i presunti limiti naturali. Il 5-0 con cui il Pescara ha annichilito il Genoa al suo ritorno in panchina è senz’altro dovuto ad un avversario in evidente flessione e che non ha mai avuto niente da chiedere a questa Serie A 2016/2017, ma anche a una ritrovata convinzione che ha permesso a giocatori che MAI avevano vinto una gara in 24 occasioni a correre, attaccare, provarci. I gol e la vittoria sono una conseguenza, ma anche se il Pescara fosse caduto sarebbe stata evidente la convinzione ritrovata nel giocare a calcio.
Si è detto che la squadra non fosse così scarsa, che “giocasse contro Oddo”. È un’ipotesi che mi convince poco, dato che la rosa degli abruzzesi è oggettivamente inadeguata anche in un campionato di mediocre livello come il nostro. E poi, anche se fosse, non si potrebbe dire che da sempre il calcio presenta questo tipo di situazioni? Che lo stesso Zeman, nei suoi famosi “fallimenti” che i suoi detrattori citano ad esempio quando si tratta di descriverlo come un eterno incompiuto, non abbia subito in passato le stesse “rivolte”?
Quando metti alle corde i detrattori del boemo, raccontando del “bel gioco”, dell’impronta, dei talenti lanciati, ecco che viene fuori il discorso che comunque, alla fine, Zeman non ha vinto niente. Mi dispiace, ma una cultura che premia solo chi vince non sarà mai la mia, non la accetterò mai: tutti contribuiscono alla magia del calcio, chi vince e chi perde, e non è vero che chi arriva secondo è “il primo dei perdenti”. È il secondo migliore, e misurare la grandezza da una bacheca o dai numeri sarà roba buona per gli americani nel baseball, non per me. Se non ci fosse chi perde, è lapalissiano, non ci sarebbe neanche chi vince.
Matthew Le Tissier non ha mai vinto niente in carriera, eppure è stato un mito, una leggenda, più di Simone Padoin tre volte scudettato o di Simone Barone campione del mondo. Karembeu, che ha alzato Champions, Mondiali ed Europei, non è stato migliore di Batistuta. Vero è che il calcio si presta a mille interpretazioni, ma definire “grande” solo chi ha vinto tanto significa davvero non aver capito l’essenza di questo sport. Si può amare, ovviamente, la competizione; si può ritenere, giustamente, che chi vince meriti un riconoscimento. Ma ridurre tutto a una mera questione di numeri è ridicolo, perché il calcio è molto di più.
Il calcio è anche passione. La stessa che ha fatto parlare Zeman in occasione del “calcio fuori dalle farmacie”, della Juventus, del “palazzo”. La stessa che ad altri fa dire “Farsopoli”, “Rubentus”, che vede un De Laurentiis arrabbiato con il suo tecnico Sarri perché il Napoli non è uscito indenne dalla trasferta al Bernabeu contro il Real Madrid di Modrić, Bale, Benzema, Cristiano Ronaldo. Sono sentimenti contestabili, anche condannabili se vogliamo, ma possono definire un uomo tanto quanto i problemi di cocaina hanno definito l’immenso Maradona calciatore.
E c’è di più. C’è il nocciolo della questione. Chi ama Zdeněk Zeman lo ama per quello che è al di là del campo, per la ricerca dell’utopia calcistica, per il non arrendersi di fronte all’evidente realtà che non permette di vincere a chi pensa solo all’attacco, solo al divertimento. Chi ama Zeman non ama un tecnico più o meno bravo, più o meno vincente. Chi ama Zeman ama un ideale.
Lui lo sa, ma piuttosto che rinnegare se stesso e le proprie idee va avanti per la sua strada, pagando in prima persona, facendosi a volte anche del male. E nella mia oggettiva ignoranza – perché mai penserò che la mia opinione sia legge – io scorgo in questo qualcosa di bellissimo, la coerenza di inseguire un sogno fino all’inevitabile sconfitta, come Icaro che volendo avvicinare a tutti i costi il sole vede le sue ali sciogliersi.
E precipita. Zdeněk Zeman è precipitato tante volte, e precipiterà ancora, c’è da scommetterci. Tra qualche mese, com’è ovvio, il Pescara si brucerà cercando una grandezza che non può raggiungere, forse anche da domenica prossima, e tutti ricominceranno con il dire che “è il solito Zeman”, che “non cura la fase difensiva” – come se si divertisse a prendere gol – e non penseranno che l’essere sempre il solito, sempre uguale a se stesso, è un pregio raro. E che magari altri tecnici più avveduti avrebbero si preso qualche punto in più: ma al costo di quante emozioni in meno?
Attenzione: non parlo del miglior allenatore su piazza, ovvio. Non parlo di un mago che le imbrocca tutte o di una bocca della verità. Parlo di un personaggio unico che è ridicolo giudicare solo in base ai trofei o alle cadute, dimenticando volutamente le tante grandi cose fatte che solo i poveri di spirito possono non aver colto.
E ribadisco: nel bene quanto nel male, che lo si ami o lo si odi, avercene di personaggi come Zdeněk Zeman nel grigio calcio italiano di oggi.