Se qualcuno avesse dovuto dipingere Genova in quel momento, nell’attesa, col sole basso sul mare, avrebbe usato colori a olio per ottenere una pasta lucida e spessa allo stesso tempo.
Avrebbe mescolato il blu e il rosso in una tonalità intensa con cui avrebbe coperto tutto, ma schiacciando forte il pennello sulla tela, per separare le setole e lasciare lunghe strisce biancastre sporcate appena di colore. Allora avrebbe aggiunto ancora del rosso per sfumare quel cielo, assottigliarlo e dilatarlo fino a farlo scivolare lentamente in una tonalità meno accesa.
Infine avrebbe illuminato la pasta rimasta rappresa con del giallo, usando la punta del pennello, là dove il rosso aveva formato piccoli grumi, e avrebbe riempito le strisce lasciate indietro, trasformandole in schegge di luce e fatte riflettere brillanti sotto la luna invisibile che separava il blu del cielo da quello del mare.
“Se questi muri sapessero parlare, anche le strade potrebbero arrossire,
se questa gente avesse la pianura, chiusa, Genova.
Io questa notte ho voglia di cantare, dalla finestra ti sento anche arrossire,
tanto nessuno ci può ascoltare, sorda, Genova.
Non mi basta un blues, non mi basta un blues, per averti un po’ di più,
Genoa, you are red and blue.
Non mi basta un blues, non mi basta un blues, per averti un po’ di più,
Genoa, you are red and blue.”
4 marzo 1992, Genoa-Liverpool 2-0. Una partita chiusa con una cartolina dal Brasile. Rete in virata di Valeriano Fiorin e poi due righe, un saluto, quel volo inutile di Hooper, fermo per sempre a guardare il sinistro dispotico di Branco regalare al Genoa la saldatura robusta del raddoppio. Tre dita, le ultime tre dita del piede per colpire la valvola del pallone, comprimerla, e ottenere una traiettoria beffarda che negli ultimi metri cambia direzione, cambia destino, cambia il risultato.
L’andata valevole per i quarti della Coppa Uefa 1991/92 in pratica finisce lì, in quella cartolina dal Brasile spedita da Claudio Ibrahim Vaz Leal detto Branco, il terzino perfetto, voluto a tutti i costi dal tecnico Osvaldo Bagnoli per far volare alto il Grifone.
Nessuno spedisce più cartoline, eppure per i genoani Branco vive in quel francobollo e nell’altra affrancatura, quella del derby di un paio d’anni addietro risolto ancora da una sua prodezza sotto la Nord che svelò un mare di cartapesta rossoblu e una caravella a solcarlo: “Come i nostri avi dominavano i mari noi dominiamo gli stadi”.
Contro il Liverpool invece c’era stato un bagliore di laser, un immenso “We are Genoa” sulla tribuna laterale e all’ingresso in campo, gli altoparlanti avevano elargito “Così parlò Zarathustra” musicato nella partitura strepitosa di Richard Strauss innescando colori, storia, abissi e vertigini della squadra più antica d’Italia.
“Tra questa gente che osserva e si lamenta, pure Colombo è stato uno fra cento,
e adesso in mare veleggia la rumenta, strana, Genova.
Io questa notte ti vorrei parlare, e invece parto per mandarti a dire,
che tu sei bella, si, ma da ricordare, bella più che mai.
Non mi basta un blues, non mi basta un blues, per averti un po’ di più,
Genoa, you are red and blue.
Non ci basta un blues, non ci basta un blues, per averti un po’ di più.
Genoa, you are red and blue.”
In fondo il brodo primordiale in cui nasce il Genoa profuma distintamente di tè con un goccio di latte. Il Genoa è molto inglese. Il calcio sbarca dalle navi che attraccano al porto, lo diffondono i marinai a riposo e i commercianti che facevano la spola con la madrepatria.
E Genova guarda. Assimila. Se ne riveste; a partire dall’ultima punta della Cattedrale di San Lorenzo, per scendere dondolando come una barca al molo, nei vicoli, nelle sue viscere, nei carrugi, nelle botteghe adornate da bassorilievi di santi e guerrieri; nella Chiesa stramba di San Pietro in Banchi, fino all’ingresso del Palazzo Imperiale, trovando il fresco e verde respiro dei carpini della piazzetta dei ragazzi; la pancia di sottoripa, via del Campo cantata da De André, o via Balbi intrisa delle tonalità calde dei vecchi lavatoi. Genova impara a tirare calci a un pallone sotto la Lanterna sottile e magnifica, marcata dalla croce di San Giorgio impressa sui mattoni protesa a proteggerla.
Salirà in cattedra James Richardson Spensley, un dottore londinese con la fissa del football, che tutti chiameranno “u megu”. Lo capisce un italo-svizzero di nome Edoardo Pasteur, che insieme a Spensley convincerà i soci del Cricket and Athletic Club a inserire il calcio nella denominazione ufficiale, aprendo le porte al nuovo sport nel primo empirico campo di Ponte Carrega nei pressi del torrente Bisagno.
“Se questi muri sapessero parlare, anche le strade potrebbero arrossire,
se questa gente avesse la pianura, chiusa, Genova.
Io questa notte ho voglia di cantare, dalla finestra ti sento anche arrossire,
tanto nessuno ci può ascoltare, sorda, Genova.
Non mi basta un blues, non mi basta un blues, per averti un po’ di più,
Genoa, you are red and blue.
Non mi basta un blues, non mi basta un blues, per averti un po’ di più,
Genoa, you are red and blue.”
Il 18 marzo il Genoa scenderà sul prato perfetto di Anfield forte del vantaggio conquistato al Ferraris. Quasi quattromila tifosi saliranno a Liverpool. Gli altri a casa davanti alla TV a guardare gli occhi chiari, da cacciatore gallese, di Ian Rush, tentando di esorcizzare il salotto edoardiano dell’area di rigore di sua competenza.
Il Liverpool non è più lo squadrone rosso e invincibile del decennio precedente. Nel tempio incomincia ad affiorare polvere sulle cariatidi, nonostante la Kop spinga e assolva con salvacondotti diramati dall’affetto i vari Nicol, Barnes, e lo stesso ombroso Greame Souness seduto in panchina, che capisce subito che quella sorta di nuovo derby lui lo perderà, perché l’insolente Genoa ha una marcia in più ed entusiasmo da vendere.
Lo perderà, è sarà la prima volta che una squadra italiana violerà lo stadio di Anfield Road. Sarà la serata di Simone Braglia, che chiude la sua porta a doppia mandata e, con una prestazione superlativa, contribuisce in maniera decisiva alla storica impresa del Genoa.
Sarà la serata dell’inesauribile Gennaro Ruotolo, del mai dimenticato capitano Gianluca Signorini, delle geometrie di Bortolazzi. Una serata coronata da quel piccoletto scuro di Montevideo che sembrava nascondersi sotto l’imponenza del suo diretto compagno di reparto, il gigante ceco Tomas Skuhravy.
Un piccoletto che risponde al nome di Carlos Aguilera, attaccante tascabile di 162 centimetri, fatto di scatti repentini sul campo e talvolta anche fuori. Ma quella sera, sotto le luci livide di Liverpool, “Pato” l’anatroccolo, rispolvera le doti, la metrica, i timbri, che tanto invaghirono il professor Scoglio quando decise di portarlo a Marassi insieme a Josè Perdomo e Ruben Paz.
Altre storie, altre vite, altri piedi. L’anatroccolo sapeva, e molto bene, come si sta e cosa si deve fare in attacco.
Liverpool-Genoa 1-2.
“Tra questa gente che osserva e si lamenta, pure Colombo è stato uno fra cento,
e adesso in mare veleggia la rumenta, strana, Genova.
Io questa notte ti vorrei parlare, e invece parto per mandarti a dire,
che tu sei bella, si, ma da ricordare, bella più che mai.
Non mi basta un blues, non mi basta un blues, per averti un po’ di più,
Genoa, you are red and blue.
Non ci basta un blues, non ci basta un blues, per averti un po’ di più.
Genoa, you are red and blue.”
Simone Galeotti è un apprezzatissimo scrittore e blogger, un amico vero e l’autore della prefazione del mio “Pionieri del Football”. Lo ringrazio davvero di cuore per avermi donato questo splendido pezzo, a cui spero ne faranno seguito altri.
Per Urbone Publishing ha scritto “Barrio”, “British Corner”, “Celts”, “La strada di Brian”, “Storie di ordinaria Argentina” e “Villans Years“.