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Hopeball, un pallone che significa speranza

Ho scoperto Internet in relativamente tarda età – avevo passato i venticinque anni – e amo questo straordinario strumento: vero è che, come notoriamente ha detto Umberto Eco, ha dato voce “a migliaia di cretini”, ma è vero anche il contrario. Il web ha dato voce a tantissime persone valide, persone di qualità, “contatti” che con il tempo sono diventati “amici” e che mi hanno fatto conoscere storie straordinarie.

Una di queste è senz’altro il progetto messo in piedi da Gian Marco Duina, milanese poco più che ventenne:, stufo di una vita a Londra che non sentiva propriamente sua nella ripetitività “casa/lavoro, lavoro/casa”, Gian Marco molla tutto ed effettua un cambio radicale, completo. È così che, nel febbraio del 2016, nasce “Hopeball”,un progetto che si pone come obbiettivo di fornire un educazione e una formazione attraverso il calcio a chi, queste cose, non può permettersele in altro modo.

“Lo sport può trasmettere valori educativi universali, e può quindi essere applicato in ogni parte del mondo” mi dice Gian Marco quando ci parlo per la prima volta. Il calcio in particolare, “perché sarà sempre la più grande religione al mondo” e rappresenta gioia sia per chi lo pratica che per chi lo osserva ad ogni livello. Mentre lo ascolto penso immediatamente alla famosa frase di Albert Camus, straordinario filosofo franco-algerino e portiere appassionato che diceva che “non c’è altro posto al mondo in cui un uomo è più felice che in uno stadio di calcio” e penso che finalmente ne ho capito il senso.

Il calcio, oltretutto, può letteralmente essere giocato ovunque. Se è vero infatti che esistono Paesi al mondo senza chiese ma pochi non possiedono un campo di calcio, è vero inoltre che una partita può essere giocata ovunque: basta qualcosa che ricordi le porte, un pallone e tanta passione.

Gian Marco mi racconta inoltre che lui viene da un mondo sportivo completamente diverso, e cioè lo sci di fondo: perché allora il calcio? Il punto in comune me lo spiega proprio lui, con disarmante semplicità: “Lo sci di fondo si fa per passione e nulla più. Non si pratica per divertimento – perché c’è poco da divertirsi – ma per amore per la natura, passione, sfida personale. Sono tanti fattori che influenzano la crescita di un ragazzo che come me lo ha fatto proprio nel pieno dell’adolescenza.”

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Per un infortunio Gian Marco ha dovuto abbandonare lo sci di fondo, ma ormai i valori che lo sport gli aveva insegnato erano diventati i suoi, li aveva fatti propri. Valori universali così come il termine “sport”, che mi fa notare “viene chiamato così in ogni parte del mondo, e un motivo ci sarà”. Perché lo sport è universale, e nella storia ha avuto anche dei ruoli nella storia dell’uomo di grande importanza: cambiano le forme, cambiano le discipline e le squadre ma certe cose restano fisse. La presenza di un avversario (“attenzione, non un nemico”), la presenza di regole uguali per tutti.

Nel febbraio del 2016 Gian Marco butta giù su carta “Hopeball”, il cui obbiettivo è proporre esperienze formative legate al calcio: viene letto e approvato dalla ONLUS Whanau che gli propone di portarlo in Zambia, nel piccolo villaggio di Monze. Nascono così le ZESCO Stars, squadra che trova i suoi componenti tra i tanti ragazzi che, spesso per motivi economici, non riescono ad avere completo accesso all’istruzione.

“Hopeball” stravolge le loro vite, portando regole, competizione, amicizia, ma per Gian Marco non sarà facile portare avanti il suo progetto: l’impatto con l’Africa è forte, “uno schiaffo in faccia che ti fa fare un giro di 360° e, quando torni al punto di partenza hai un’ottica completamente diversa”. Gian Marco mi racconta una cosa degna di un racconto di Galeano: del suo amico Yilford, che gioca senza una gamba e che comunque non manca di entusiasmo e anzi, grazie al pallone si trova ad essere uguale a tutti gli altri.

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L’impatto con l’Africa è forte e per nulla semplice: se anche a livello di grandi Nazionali possiamo dire che nel calcio queste sanno esprimere grande intensità fisica e buone qualità tecniche ma peccano di individualismo e capacità strategiche, possiamo solo immaginare come questo venga praticato da ragazzi poco più che adolescenti in un piccolo villaggio di neanche 30.000 abitanti come Monze. Inizialmente le ZESCO Stars giocano come tutte le altre squadre del distretto: grandi corse, contrasti molto duri, tanto individualismo.

“Un ragazzo che da vent’anni gioca a calcio, a piedi nudi, sulle rocce, e ti viene un bianco che ti dice di cercare di giocare a due tocchi ciascuno, fare triangolazioni, avere una difesa alta e un centrocampo a rombo dirà ‘ma questo cosa vuole? Lasciaci giocare come piace noi!’ E non è affatto facile convincerli del contrario”.

L’impressione che ho mentre Gian Marco mi racconta queste cose, mentre mi spiega come le loro grandi risorse fisiche questi ragazzi le “sprechino” inseguendo continuamente il pallone e arrivando poco lucidi al finale di gara – e di come anche qui sia difficile dire loro di “correre meno” – è che questo confronto abbia arricchito tanto le ZESCO Stars quanto lo stesso Gian Marco.

Iscritte a quello che potrebbe essere considerato il quinto livello nazionale proprio nel giorno in cui il torneo ha inizio, le ZESCO Stars faticano ovviamente all’inizio a digerire gli insegnamenti di Gian Marco ma poi concluderanno il torneo sfiorando la vittoria nel campionato locale e la conseguente qualificazione ai play-off validi per accedere al calcio semi-professionistico.

Per Gian Marco è comunque una vittoria, perché i ragazzi sotto la sua guida sono cambiati, la maggior parte ha appreso il senso di allenamenti inizialmente considerati noiosi e la strada è stata tracciata.

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Gli aneddoti che mi lascia questa chiacchierata sono innumerevoli: le maglie del Manchester City con scritto sopra “ZESCO Stars”, i campi duri, con salite, discese e buche che rendono il gioco più che imprevedibile, le reti in porta “montate soltanto per le grandi occasioni”, la passione smodata per la Premier League a discapito del misconosciuto campionato locale.

Mi resta soprattutto il candore di Gian Marco, che mi racconta di come odi i luoghi comuni sul calcio e di come la sua missione sia quella di restituire allo sport il suo significato originale: qualcosa che va oltre le barriere, oltre il razzismo, uno strumento di integrazione e confronto.

“Lo sport non deve essere le partite truccate, i soldi, gli sponsor…lo sport è un’altra cosa. Il calcio non è soltanto soldi, è uno strumento di lotta. Il mio progetto combatte la discriminazione, il razzismo, dentro e fuori dal campo, lo sport dev’essere uno strumento di integrazione sociale.”

Dopo l’avventura con le ZESCO Stars, Gian Marco è tornato brevemente in Italia – creando un gemellaggio con l’AfroNapoli United, esempio di squadra antirazzista qui da noi – e poi è ripartito per il Kenya, per un progetto analogo e altrettanto vincente. Per l’inizio di questo 2017 ha deciso invece di provare a trapiantare Hopeball qui da noi, lanciando un altro progetto di cui certamente vi racconterò in futuro e che comunque avrà gli stessi valori di uguaglianza, passione, integrazione e comprensione del diverso: i valori di Gian Marco, i valori di Hopeball.

I valori, è bene ricordarlo, del calcio e dello sport.

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HOPE BALL 

Un progetto di Gian Marco Duina

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