Il calcio è pieno di storie in cui a un’ascesa che sembra inarrestabile segue una fragorosa, immediata, caduta: una delle più incredibili ha il volto di un bomber brasiliano che nel giro di un’estate passò da essere il miglior centravanti d’Europa a un clamoroso carneade. La carriera di Mario Jardel può essere divisa in due capitoli: un prima, che racconta l’esplosione in patria a suon di reti, le affermazioni con Vasco da Gama e Gremio – con cui vince una Coppa Libertadores da capocannoniere.
E poi l’arrivo in Europa, le camionate di gol segnate in Portogallo con le maglie di Porto (168 in 175 partite) e Sporting Lisbona (addirittura 67 in 62) e la breve ma proficua esperienza in Turchia, al Galatasaray, dove pur faticando ad adattarsi e ostracizzato dalle gerarchie del club segna 34 gol in 43 partite.
E poi un dopo, tanto girovagare tra Inghilterra, Italia, Brasile, Bulgaria, Cipro, Australia e Arabia Saudita senza più trovare la grandezza improvvisamente perduta nel giro di un’estate: un divorzio, la depressione, la droga, la consapevolezza di non essere abbastanza da far parte del Brasile che vince il Mondiale del 2002 nonostante i 42 (QUARANTADUE) gol segnati in 30 partite nella stagione appena conclusa.
In quella irripetibile stagione 2001/2002 Mario Jardel vince il campionato portoghese, la Coppa di Portogallo, la Supercoppa, il titolo di capocannoniere e la Scarpa d’Oro come miglior bomber d’Europa. Dopo più niente, se escludiamo un campionato argentino e una Coppa di Cipro (!) soltanto come comparsa, l’ombra del campione che fu.
Due volte Scarpa d’Oro, due volte capocannoniere della Champions League, cinque del campionato portoghese, vinto in quattro occasioni. Fino al 2003, anno del trasferimento al Bolton e dell’inizio della fine, 414 partite e 328 gol segnati. Dopo soltanto il buio, il campione che si trasforma in bidone, un finale di carriera triste e solitario che offuscherà il ricordo di un centravanti che nei momenti migliori era inarrestabile e che ingiustamente non ha mai avuto l’occasione di dimostrare davvero tutto il proprio valore ad altissimo livello.
In Italia ce lo ricordiamo all’Ancona, grasso e svogliato, tanti proclami e nessun fatto, tre partite a trotterellare per il campo senza alcuna convinzione, la parodia di se stesso. Ritroverà la grandezza perduta soltanto a fine carriera, quattro mesi nel modesto campionato saudita, dove prossimo ai quarant’anni si toglie la soddisfazione di segnare più di un gol a partita.
Segnature malinconiche, nella periferia del pallone, pallide imitazioni di quelle che un decennio prima gli avevano permesso di diventare uno degli attaccanti più temuti al mondo. Una storia simile a quella di un altro illustre connazionale, “l’Imperatore Adriano”, che ci ricorda come i grandi eroi degli stadi, in fin dei conti, non sono altro che persone. Con le stesse fragilità di tutti noi.
SITOGRAFIA:
- (17/04/2018) From 54 goals in a season to drug addiction: the rise and fall of Mario Jardel, Fergus McAlinden, These Football Times