Vero che ormai nel calcio frenetico del 2000 le trattative tra i club durano tutto l’anno, ma è d’estate che il calciomercato impazza, è in quei giorni che i tifosi cominciano a sognare e a disegnare le proprie squadre.
Nel giorno della chiusura del calciomercato ho pensato (bene?) di stilare una mia personale classifica dei peggiori affari di calciomercato mai conclusi in Serie A.
Naturalmente è una classifica personale e scritta di getto, per cui sentitevi liberi di commentare e dire la vostra nella mia Pagina Facebook.
#11 – MÁRCIO SANTOS (Fiorentina)
A Firenze e dintorni tutti ricordano questo altrimenti anonimo difensore brasiliano per diversi motivi, il più eclatante dei quali è legato al presunto “bonus” sul contratto messo dall’allora proprietario del club viola, Vittorio Cecchi Gori, per convincerlo a trasferirsi in riva all’Arno.
Produttore cinematografico, Cecchi Gori avrebbe convinto l’attrice Sharon Stone (ai tempi icona sessuale per “Basic Instinct”) a uscire a cena con Márcio Santos se questi avesse segnato 9 reti in campionato.
Purtroppo per lui il brasiliano, arrivato per oltre 5 miliardi dal Bordeaux e preferito a un certo Lilian Thuram, si fermò a quota 2, segnando inoltre 2 autogol ed essendo il cardine difensivo di una Fiorentina tanto anonima da finire decima, esattamente a metà classifica.
Lento e impacciato, soprattutto distratto e dotato di un’autostima a dir poco eccessiva, incredibilmente Márcio Santos appena l’anno precedente aveva vinto da titolare (per via di numerosi infortuni occorsi ai compagni) i Mondiali con il Brasile, superando proprio l’Italia in finale ai rigori a USA ’94.
Da un difensore campione del mondo ci si sarebbe aspettati decisamente di più, e fu così che dopo una sola stagione la Fiorentina lo sbolognò in Olanda, all’Ajax, dove deluse ulteriormente prima di tornare in patria.
#10 – Darko PANČEV (Inter)
Al di là di tutto quel che si può dire, l’Inter a vincere ci ha sempre seriamente provato, acquistando di volta in volta quelli che erano ritenuti i migliori calciatori del pianeta.
I nerazzurri non hanno vinto poco, nella propria storia, ma è certo che la bacheca dei trofei sarebbe ben più splendente se qualcuno degli acquisti non si fosse improvvisamente involuto appena arrivato ad Appiano Gentile.
Una cosa è certa, questo non è il caso di Darko Pančev, che fu invece semplicemente un abbaglio estivo, pur acquistato con tutti i migliori propositi. Certo che, sulla cart,a l’idea di affiancare a Totò Schillaci, eroe delle “notti magiche” appena due estati prima, a questo macedone Scarpa d’Oro in carica (34 reti, secondo dietro Papin nel Pallone d’Oro e Campione d’Europa con la Stella Rossa di Belgrado) era buona, ma guardando a fondo le gare degli jugoslavi il dubbio che non fosse tutto oro quel che luccicava poteva venire.
Nella Stella Rossa infatti Pančev riceveva assist a profusione da due talenti cristallini come Robert Prosinečki e Dejan Savićević, e nel non esageratamente competitivo campionato jugoslavo aveva così tante occasioni da gol che, in un modo o nell’altro, qualcuna doveva pur’entrare, cosa che senz’altro aiutava anche la sua autostima.
Che crollò rapidamente quando a Milano si accorsero che questo centravanti (pagato ben 14 miliardi di lire) non era che un giocatore normale, forse persino mediocre: ci vollero tutti e quattro gli anni previsti dal contratto (a 2 miliardi a stagione) per liberarsene, e poco dopo arrivò il ritiro.
Anni dopo Pančev fu usato come termine di paragone proprio dall’ex-compagno Savićević, che per descrivere Ronaldo disse: “A lui bastano due occasioni per fare almeno un gol, a Darko ne servivano una decina”. Affermazione a cui Darko, probabilmente, ha risposto facendo spallucce: del resto fu lui a dire “tifosi fischiano, giornalisti criticano. Io? Io compro Ferrari”.
# 09 – Gustavo Javier BARTELT (Roma)
Sembrava Caniggia. Non lo era. Si potrebbe definire così, a voler essere lapidari, la carriera di Gustavo Javier Bartelt, uno dei più grossi flop di mercato di sempre della Roma in un periodo tra l’altro dove i giallorossi faticavano ad indovinarne una appena gettavano un occhio fuori dai confini nazionali.
Nel 1998 arriva per 15 miliardi di lire (utile ricordare che lo stipendio medio di un operaio superava di poco il milione) questo centravanti argentino che si è messo in mostra nel Lanùs, dove ha giocato una buona stagione segnando 13 reti in 18 gare. Una media più che buona, ci mancherebbe, ma stilata in un periodo davvero troppo ristretto. E se fosse solo un exploit?
La Roma non ci sta troppo a pensare e lo acquista, scoprendo poi che si, era solo un exploit. Bartelt non è né carne né pesce, come centravanti è leggero e come seconda punta manca di tecnica e visione di gioco.
In una stagione intera gioca bene solo 5 minuti, contro la Fiorentina, quando Zeman lo inserisce per disperazione e lui giganteggia servendo i due assist (a Aleničev e Totti) che permettono ai giallorossi di ribaltare il risultato da 1-0 a 1-2.
Gli arrivi la stagione successiva di Capello in panchina e di Montella in attacco significano che il tempo per lui è già scaduto: la Roma è lungimirante, visto che nelle successive 8 stagioni Bartelt giocherà poco e segnerà pochissimo, la miseria di 2 reti, un gol ogni quattro anni.
Profetico era stato proprio Zeman, che così aveva commentato l’entusiasmo dei tifosi ai primi gol (in amichevole) dell’argentino: “Bartelt un fenomeno? Non giudicatelo perché ha preso a segnare. È bravo, ha numeri, ma aspettiamo gare vere e avversari veri.” Appunto.
#08 – Gianni COMANDINI (Milan)
Sfondare, nel mondo del calcio, non è solo una questione di talento. Conta anche il carattere, la costanza, più di tutto conta l’amore per la disciplina. Gianni Comandini era uno a cui piaceva giocare e a cui piaceva segnare, e di talento ne aveva in quantità.
Il Vicenza lo acquista giovanissimo, lo lascia a Cesena e lui segna 14 reti a vent’anni, per poi la stagione successiva vestire il bianco-rosso e mettere la palla in fondo al sacco per 20 volte.
È promozione per i veneti, è consacrazione per questo talento che passa al Milan per circa 30 miliardi di lire proprio a ridosso del 2000, l’anno in cui con l’Italia Under-21 Comandini si laurea Campione d’Europa.
In rossonero, però, succede qualcosa: chi lo sa se Comandini, che ha carattere profondo e sensibile, non reagisca male alle prime inevitabili critiche che giocare in rossonero porta con se, chissà se sente la responsabilità di tutti quei miliardi spesi per lui.
Segna 2 reti in un clamoroso derby della Madonnina vinto dal Milan per 6-0, sembra l’inizio di tutto e invece siamo già quasi ai titoli di coda: dopo aver tentato un rilancio in provincia (l’esperienza rossonera dura appena una stagione) Comandini cala sempre di più in resa e in motivazione, e a 28 anni si ritira precocemente, scoprendo il surf, i viaggi, la pace della vita di provincia, dove può finalmente essere se stesso.
Al Milan resta il ricordo di un ragazzo che poteva essere fortissimo, ma che forse non è stato capito e che certamente è stato acquistato con un po’ troppa fretta.
#07 – Ricardo QUARESMA (Inter)
Chissà cos’ha, José Mourinho, con le ali talentuose e anarchiche. Al Chelsea ha voluto Salah per poi disfarsene e sostituirlo con Cuadrado, altro amore che sembra già passato di moda.
Non sono una novità, queste passioni estive del tecnico dei “Blues“, anzi: già quando sedeva sulla panchina dell’Inter fu così con Ricardo Quaresma, sedotto e abbandonato nel giro di pochi mesi.
A tutto ciò, allora, contribuì certamente anche il carattere tutt’altro che docile del giocatore, che a vent’anni nel Barcelona si era recato dalla dirigenza per chiedere la testa dell’allenatore Rijkaard, reo di non capirlo tatticamente.
Ne aveva ottenuto una cessione al Porto, la squadra di sempre per “El Ciganito“, ala di talento assoluto ma anarchica e appunto dal carattere tutt’altro che semplice. Mourinho gli vede fare magie e vincere titoli in serie con il Porto e decide che è l’uomo che fa per lui, la qualità che serve alla sua Inter per vincere.
E in effetti Quaresma vince, in nerazzurro, due Scudetti e una Champions League, ma purtroppo lo fa da comparsa, dando un contributo risicato e intestardendosi con la sua famosa “Trivela“, una sorta di tiro/cross effettuato sempre con l’esterno del piede.
Un numero magico, senza dubbio, ma che non giustifica un rendimento fumoso ed un comportamento da prima donna che gli ha impedito di arrivare a grandi livelli nonostante mezzi tecnici di primissimo ordine. Il suo ricordi in nerazzurro, dunque, è quello di un inutile orpello costato oltre 20 milioni di euro.
#06 – Nicola VENTOLA (Inter)
Altro italiano in classifica, perché gli abbagli di mercato arrivano anche dal mercato nostrano. Nel caso di Nicola Ventola, però, si deve parlare soprattutto di tanta sfortuna.
Cresciuto nel Bari, esplode giovanissimo (esordio in A a 16 anni) grazie a mezzi tecnici e soprattutto fisici strepitosi: quando parte in velocità sembra inarrestabile, è potente e talmente rapido da essere chiamato “il figlio del vento”.
Con il Bari vince il campionato di B, con la Nazionale i Giochi del Mediterraneo e l’Europeo Under-21 in coppia con Comandini. All’Inter, che lo acquista per quasi 40 miliardi di lire, vive un rapido momento di gloria insieme ad un nuovo partner, Kallon: i due, giovanissimi, si trovano titolari per via di tanti infortuni dei compagni di reparto e giocano bene, ma alla lunga non gli viene data fiducia e si perdono.
Kallon finisce per tornare in Sierra Leone e fondare una squadra con il suo nome, dove gioca e fa il presidente. Ventola invece viaggia a due velocità: si sposa con la bellissima modella Kartika Luyet, ma nel calcio non riesce a rilanciarsi, passando dal Siena all’Atalanta dopo un breve e sfortunato intermezzo al Crystal Palace.
In Inghilterra si fa male in modo grave, un infortunio che è solo il primo di una serie di guai che ne condizionano il resto della carriera e lo portano al ritiro. Le sue enormi potenzialità (e l’ascendenza indonesiana della moglie) lo portano ad essere considerato “il calciatore preferito” di Erick Tohir, nuovo proprietario dell’Inter.
Nel suo caso si può senz’altro parlare di sfortuna e mancanza di fiducia come le cause di un così rapido declino per un giovane che costò 40 miliardi.
#05 – Ian RUSH (Juventus)
Anche la Juventus ha avuto i suoi bidoni. Il più eclatante di tutti, forse è stato Ian Rush, che nella stagione 1987/1988 arrivò tra squilli di tromba per scacciare via la paura che senza Platini, ritiratosi a sorpresa pochi mesi prima per numerosi malanni fisici, la squadra non sarebbe più stata vincente.
In bianconero il centravanti gallese avrebbe dovuto emulare il suo connazionale John Charles, che alla fine degli anni ’50 aveva fatto sfracelli in Italia, ma purtroppo i dirigenti non tennero conto di un fattore molto importante.
Rush – che in patria era un’istituzione, e che arrivava da un’ultima stagione dove aveva messo a referto ben 40 gol – aveva bisogno di tempo per adattarsi ad un gioco molto più tattico di quello a cui era abituato.
Il risultato fu che segnò un totale di 13 reti (la metà al povero Pescara) di cui soltanto 7 in campionato, dimostrandosi spesso abulico e fuori dal gioco e non riuscendo a integrarsi con l’Italia e con i compagni, non tentando neanche di imparare la lingua come se fosse consapevole che sarebbe stata un’avventura di breve durata.
Lo fu, nonostante il fatto che l’essere comunque il capocannoniere di una Juventus capace di qualificarsi per l’Europa all’ultimo tuffo indicasse che non era l’unico acquisto poco indovinato dai bianconeri.
Tornato in Galles mestamente, non ritrovò più la verve di un tempo, pur continuando a giocare fino ai quarant’anni.
#04 – FÁBIO JÚNIOR Pereira (Roma)
Verso la fine degli anni ’90 la Roma riuscì a distinguersi per l’incredibile capacità di toppare in serie praticamente qualsiasi acquisto arrivasse dal mercato estero: in un’epoca in cui i campionati stranieri non avrebbero dovuto avere ormai più segreti, i giallorossi riuscirono a importare nel nostro campionato giocatori improponibili.
Particolarmente interessante fu la tripletta ’96-’97-’98: nel 1996 arrivava nella capitale la punta svedese Martin Dahlin, bomber implacabile in Germania e con la Nazionale e che alla Roma avrebbe giocato appena 3 gare in sei mesi prima di andarsene.
L’anno successivo toccava al difensore centrale spagnolo César Gómez, preso per sbaglio dal Tenerife (Zeman non ricordava il nome e aveva chiesto “quello che finisce con la Z” confondendolo con il compagno Paz) e che si diceva fosse stato l’unico a fermare Ronaldo: in quattro stagioni il buon Gómez giocò tre gare prendendo sempre lo stipendio pieno e aprendo successivamente una concessionaria.
Nel 1998 infine la tragedia Bartèlt, di cui vi ho parlato poco sospra. Logico che nel 1999 bisognava invertire la tendenza: l’Inter aveva acquistato Ronaldo, il Milan aveva virato su Shevchenko, a cui la Roma però aveva preferito (nonostante il parere di mister Zeman, orientato per l’ucraino) un certo Fábio Júnior.
Arrivava dal Cruzeiro, in patria era considerato già il “nuovo Ronaldo”: costato 40 miliardi di lire, aveva intorno a se un hype pazzesco, tanto che un quotidiano sportivo se ne uscì con una videocassetta che lo celebrava, mostrando in pratica sempre le stesse azioni, e che è ancora possibile guardare su YouTube a QUESTO LINK.
Peccato che alla prova dei fatti “l’Uragano Azzurro”, come veniva chiamato, si rivelò un misero venticello, tradito soprattutto da una tecnica a dir poco approssimativa e da una visione di gioco che portò il suo allenatore a dire che “non sa fare quasi niente e non ha la minima voglia di imparare”.
Così finì la storia tra Fábio Júnior e la Roma, con il centravanti che ha continuato a cercare il gol scendendo sempre più di livello: dal 15 gennaio di quest’anno, a 38 anni, è un nuovo giocatore del Guaranì di Divinòpolis.
#03 – Hristo STOIČKOV (Parma)
È un Parma che sogna e che fa sognare i suoi tifosi, quello che da poco prima della metà degli anni ’90 è gestito dalla Parmalat dei Tanzi: poi si scoprirà amaramente come quei sogni fossero alimentati, ma allora si parlava di una squadra venuta fuori dall’anonimato e decisa, provinciale terribile e bellissima, a contendere lo Scudetto ai grandi squadroni metropolitani.
Vi furono in quegli anni stagioni più o meno fortunate, e nel 1995 tutti si pensava che si sarebbe giunti a una svolta: i ducali infatti affiancavano a un campione come Gianfranco Zola, e un giovane di grandi prospettive come Filippo Inzaghi, il Pallone d’Oro in carica, il bulgaro Hristo Stoičkov, prelevato dal Barcelona per 12 miliardi di lire dopo che in azulgrana il talentuoso trequartista era finito ai ferri corti con l’allenatore Cruijff.
Un acquisto epocale, il miglior giocatore al mondo (capace di trascinare la Bulgaria al quarto posto al Mondiale sempre nel ’94) che veniva a giocare per i giallo-blu. Qualcuno tentò di far notare che effettivamente le caratteristiche tecniche di Stoičkov erano molto simili a quelle di Zola, e che ciò avrebbe potuto creare un pericoloso dualismo, ed ebbe poi ragione quando a campionato in corso il tecnico Scala cominciò a lasciare sempre più spesso l’asso bulgaro in panchina, relegandolo ad un ruolo di riserva di lusso che uno come lui non avrebbe mai potuto accettare.
Era noto infatti come il talento enorme e cristallino di Stoičkov fosse inferiore soltanto al suo ego, fatto che lo aveva portato ad essere più un problema che una risorsa in ogni squadra che, semplicemente, non si era consegnata in tutto e per tutto a lui e al suo estro.
Altero, frustrato, rabbioso, in campo si fece notare per il suo continuo gesticolare chiedendo il pallone ma poi combinò molto poco, intestardendosi in numeri malriusciti che finivano soltanto per innervosirlo ulteriormente.
Stoičkov segnò soltanto 5 reti senza mai prendersi davvero la maglia da titolare, e a fine stagione salutò l’Italia per sempre tornando al Barcelona, prima di finire la carriera in Giappone e Stati Uniti.
#02 – Marcos VAMPETA (Inter)
Un bidone? Qualcosa di più. “Marcos Andrè Batista Santos, in arte Vampeta (derivante dalla fusione delle parole “vampiro” e capeta, che significa “diavolo”), non è una semplice meteora, ma qualcosa di più. Possiamo considerarlo uno dei desaparecidos per eccellenza.”
Così lo definisce Cristian Vitali nel suo sito Calciobidoni.it, e in effetti è davvero difficile dargli torto: arrivato all’Inter in pompa magna per la bella cifra di 30 miliardi di lire (l’amico Ronaldo, che ne aveva consigliato l’acquisto alla società, era stato pagato 48 due stagioni prima, ma era già considerato il miglior giocatore al mondo) fu descritto come il prototipo del calciatore del 2000.
Sagace tatticamente, dotato tecnicamente, potente fisicamente e versatile, capace di giocare in ogni ruolo del centrocampo. “Un Tardelli moderno” lo aveva definito Giancarlo Antognoni, che lo aveva seguito per la Fiorentina. Esagerato? “Un po’ Rivelino e un po’ Dunga” aveva rincarato Vanderlei Luxemburgo, all’epoca CT del Brasile.
Insomma, i presupposti affinché l’Inter avesse fatto il colpo decisivo, quello della svolta e che avrebbe portato il tanto desiderato Scudetto, c’erano tutti. Peccato che poi a parlare sia il campo: da settembre a gennaio Vampeta gioca soltanto una gara in campionato, apparendo spesso in Coppa Italia e in Europa e mai lasciando il segno.
Anzi, si fa notare per una lentezza esasperante, che lo porta a gestire il pallone come neanche vent’anni prima, e ovviamente la voglia di strafare e di non tentare mai la soluzione più semplice non aiuta: Lippi, che non lo vedeva, viene sostituito in panchina proprio da quel Tardelli a cui era stato incautamente paragonato, che lo emargina per disperazione.
A gennaio, orgogliosamente, Vampeta dichiara che se non deve giocare allora è inutile che resti in nerazzurro: viene subito accontentato, scambiato in prestito con il Paris Saint-Germain, che non è lo squadrone di adesso e che in cambio manda alla Pinetina un certo Stéphane Dalmat, non certo un campione da trenta miliardi.
Nemmeno il successivo ritorno in Brasile riaccende un talento durato lo spazio di un estate e su cui molti giurano ma di cui non molti ricordano.
Ed è così che Vampeta entra nella storia come il peggior acquisto di sempre dell’Inter. Impresa mica da poco.
#01 – Gaizka MENDIETA (Lazio)
“È stato deciso nel vertice di giovedì a Formello. Il sogno di Cragnotti è Gaizka Mendieta, formidabile e completo centrocampista del Valencia. Costa 120 miliardi, li vale tutti. Con Mendieta, Fiore (già acquistato, come Giannichedda) e Nedved, Zoff potrebbe puntare a vincere la Champions League, il prossimo anno.”
Così “La Repubblica” nel marzo del 2001 accosta per la prima volta il nome di Gaizka Mendieta alla Lazio e al calcio italiano. E pazienza se quando poi in estate il basco arriva in bianco-celeste venga proprio a sostituire quel Nedved che avrebbe dovuto essere il suo dirimpettaio a centrocampo, e che invece è stato ceduto alla Juventus per 70 miliardi di lire.
Lui, che di miliardi ne è costato 90, è quel che serve per calmare una piazza inviperita con il presidente Cragnotti. Il crac della Cirio, come quello della Parmalat, è ancora lontano, e i tifosi dell’Aquila sognano di riconquistare lo Scudetto vinto appena due anni prima.
Per farlo si affidano a questo centrocampista che si è distinto nel Valencia per completezza, tenacia e fiuto del gol: ha segnato ben 19 reti nella stagione precedente, mostrando un’incredibile capacità d’inserimento in area e un tiro mortifero.
Invece a Roma nasce subito un equivoco tattico: dove piazzarlo? All’ala destra dove però sembra non avere velocità e qualità tecniche così eccellenti da permettergli di saltare l’uomo in scioltezza? O nel mezzo dove però lascia voragini quando si spinge in avanti e se non lo fa non sfrutta la sua miglior qualità?
L’equivoco andrà avanti per tutta la stagione, un’annata deludente per la Lazio e i suoi tifosi: i bianco-celesti agguantano la qualificazione UEFA all’ultimo tuffo, con Mendieta ormai già dato per partente dopo 20 presenze impalpabili condite da uno “zero” alla voce relativa ai gol segnati.
“Il suo arrivo ci da’ sicuramente più forza e più qualità, e la squadra non potrà che trarne beneficio” aveva detto al suo arrivo l’allenatore Zoff, che però salta dopo appena cinque giornate sostituito da Zaccheroni.
“Non sono venuto con l’idea di andar via tra due o tre anni. Resterò a Roma almeno cinque anni.” E invece, nonostante questa dichiarazione d’amore di facciata, dopo soltanto 12 mesi la storia è finita: un anno di prestito al Barcelona (!) e poi Middlesbrough, cinque anni in Inghilterra abbastanza anonimi che però gli aprono la strada per quella che è la sua attuale occupazione, e cioè DJ per i vari locali del North Yorkshire.
Una carriera che gli darà senz’altro più soddisfazioni di quelle ricevute alla Lazio, dove arrivò come miglior centrocampista al mondo o giù di lì e finì per andarsene con l’etichetta di “bidone da 90 miliardi”.
Desidero ringraziare gli amici Andrea Bonomo e Cristian Vitali. Il primo mi ha aiutato a stilare la classifica, mentre dal sito del secondo, calciobidoni.it, ho preso diverse citazioni.