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Viva Maradona

Se chiedete chi è stato il miglior calciatore della storia a un brasiliano, questo vi risponderà Pelé. Se lo chiedete a chiunque altro, è probabile che vi farà solo un nome: Diego Armando Maradona.

Nato in una delle tante baraccopoli dell’Argentina di allora e di oggi, cresce giocando a calcio ogni giorno nelle strade polverose di Lanùs. Lo nota l’Argentinos Juniors di Buenos Aires, che ha appena preso il suo più acerrimo rivale e migliore amico Goyo.

Il provino è rocambolesco, ma subito agli occhi del suo scopritore Francisco Cornejo la cosa è evidente: il talento di quel ragazzino è infinito, potrebbe diventare il migliore.

Non il migliore della squadra, del quartiere. Non il migliore della città, o del Paese, e neanche il migliore del Sudamerica.

Il migliore al mondo. Il migliore di sempre.

“Tifosi di tutti i quartieri tradivano le loro squadre del cuore per vedere quel genio per il quale un fazzoletto di terreno era più di un latifondo.

Alcuni lo confusero con Dio, e quando sei poco più che un bambino non hai motivo di mettere in dubbio l’opinione dei grandi.” 

(Jorge Valdano, “Il sogno di Futbolandia”)


Nelle giovanili spopola, esordisce in prima squadra a 16 anni ma è già famoso per i numeri di palleggio con cui intrattiene il pubblico allo stadio durante l’intervallo. A 17 anni è titolare, a 18 capocannoniere del campionato, a 19 e 20 anni vince due volte di seguito il Pallone d’Oro Sudamericano.

Ma chi è stato Maradona? Semplicemente, Maradona è stato tutto: basso, tozzo, a vederlo non era esattamente il dio greco dell’atletica. Ma nel calcio contano i piedi, e con quel sinistro che aveva Diego era capace di fare tutto l’umanamente concepibile e oltre: pensare che la caviglia sinistra aveva perso un terzo della propria mobilità nel 1983, dopo il tremendo e tristemente famoso fallo del basco Goikoetxea rende ancora di più l’idea di quanto grande sia stato “El Pibe de Oro”.

Era una mezzapunta, ma segnava come un centravanti, perché era troppo facile per lui prendere la palla e piazzarla dove voleva o scartare tutti e andare in porta. Talento, fantasia, mai spaccone: era molto concreto Maradona, sceglieva sempre la soluzione più facile per andare in gol.

Più facile per lui, s’intende.

Spesso impossibile per un comune essere umano, ma del resto Diego era un Dio, il Dio del calcio. A 18 anni è già nel giro della Nazionale che si appresta a organizzare i Mondiali, ma all’ultimo Cesar Menotti ne fa a meno, considerandolo troppo acerbo.

L’Albiceleste vincerà il torneo, ma subito dopo è impossibile fare a meno di Diego, che si inserisce gradualmente in quella squadra campione del mondo e ben presto ne diventa un leader.

Ai Mondiali del 1982 è lui il trascinatore, nonostante la presenza di senatori come Kempes, Bertoni e Passarella: l’Argentina si infrange contro l’Italia futura campione, con Gentile che a discapito del cognome lo marca spietatamente a uomo per tutta la gara. 20 falli ci vogliono per renderlo innocuo, Maradona ha 22 anni e non può vincere da solo. Non ancora.

Si dice che nessuno può vincere da solo, nel calcio. Ma questo detto sarà lo stesso Diego a smentirlo per sempre, nei Mondiali del 1986. Dove l’Argentina si presenta discreta ma non forte, possibile outsider ma di quelle che sai che più in là di tanto difficilmente andrà.

Il tecnico è Carlos Bilardo, che in patria criticano perché ha rivoluzionato il gioco della Nazionale rinunciando alla tradizionale tecnica mista a furore che ha sempre contraddistinto gli argentini. Lui preferisce un gioco attento e ordinato, cauto in difesa.

Lo criticano, ma ha visto giusto: perché lui ha Maradona, e allora al resto dei tuoi giocatori puoi anche dire semplicemente di difendere e difenderlo, che tanto Diego alla fine qualcosa inventerà.

Perché nessuno può fermarlo, e infatti nessuno lo farà: nella prima fase la squadra vince e convince, anche perché i rivali dopo pochi minuti si trovano tutti dietro a quel “dieci” e quindi lasciano spazio ai compagni.

Nel 3-1 alla Corea del Sud i gol li segnano Valdano (2) e Ruggeri. Nel 2-0 ai duri bulgari in gol ancora Valdano e Burruchaga. Diego segna nella gara più difficile, l’1-1 contro l’Italia campione del mondo in carica, pur marcato strenuamente da Beppe Baresi che però si distrae un attimo e viene infilato.

Agli ottavi di finale l’avversario è l’Uruguay, che non sarà più lo squadrone temibile dei primi mondiali ma che sa come ribaltare partite incredibili: si mettono tutti in difesa, raddoppiano, triplicano le marcature su Maradona.

Si dimenticano di Pasculli, futura bandiera in Italia al Lecce, ed è un errore fatale. Pedro Pablo (personaggio da romanzo) non può sbagliare. Insomma, Pasculli segna, ma il merito è ancora di Diego.

Al turno successivo l’Argentina è attesa dagli inglesi che hanno strapazzato il Paraguay e che sono tra i favoriti per la vittoria finale. Non sarà una partita come tante, si è da poco conclusa la guerra per le isole Falkland/Malvinas, tra i due Paesi c’è tensione. Diego lo sa, come sa che queste sono le partite che cambiano una storia.

E in questo match, il 22 giugno del 1986, mostra al mondo chi è davvero, entrando nella leggenda. Due reti nel giro di tre minuti: sulla prima anticipa con un fugace tocco di mano l’uscita del portiere avversario Shilton e deposita la palla in rete, con l’arbitro che non accortosi di niente convalida nello stupore dei britannici.

È la famosa “mano di Dio”, quella che vendica la guerra perduta, quella che stordisce l’Inghilterra. Che due minuti dopo subisce quello che verrà considerato “il gol più bello della storia dei Mondiali di calcio”: Maradona riceve palla a centrocampo, salta Hoddle e si invola verso la porta avversaria, fa fuori Reid, Sansom, Butcher, Fenwick, finta il tiro e mette a sedere anche il portiere Shilton e segna nel delirio collettivo dei 115.000 spettatori presenti allo stadio Azteca e dei milioni a casa.

“Il gol del secolo”, lo chiameranno a ragione negli anni a venire, con il commentatore uruguaiano Victor Hugo Morales che entra nella storia del calcio per le sue parole.

“Grazie, Dio. Per il calcio, per Maradona, per queste lacrime, per questo Argentina 2 Inghilterra 0…”

Quello è forse il momento in cui Diego, il CT Bilardo e il mondo intero capiscono che si, l’Argentina può tornare campione del mondo. E forse, stavolta, solamente con le proprie forze, non come nel 1978, checché se ne dica…

In semifinale c’è il Belgio, che è forte in difesa grazie al super-portiere Pfaff, ordinato grazie al CT/santone Guy Thys e pronto a colpire in contropiede. L’Argentina non commette l’errore che hanno fatto le altre rivali di Scifo e compagni, attendono sornioni e poi utilizzano il solito schema: palla a Diego e si vedrà.

E si vede: un esterno sinistro in corsa al volo stende Pfaff la prima volta, uno slalom tremendo dove fa fuori quattro difensori lo fa la seconda volta. Maradona è troppo, troppo per tutti.

La finale è contro la Germania Ovest, già finalista nel 1982 e adesso in un momento di grazia: Beckenbauer ricorda la sua marcatura su Bobby Charlton nei Mondiali del 1966 e ora che siede sulla panchina della Nazionale prende il giocatore più simile al Kaiser, Lothar Matthaus, e lo inchioda su Maradona. Ne risulta una marcatura dura e asfissiante, come quella di Gentile quattro anni prima. Diego prova a dribblare, a giocare come sa, ma non riesce.

L’Argentina però non si perde d’animo: avere Maradona al fianco, diranno alcuni compagni anni dopo, ti fa sentire più forte. E infatti passa in vantaggio con Brown e raddoppia con Valdano, servito da Diego in uno dei rari momenti di libertà concessi da Matthaus. 2 a 0, gara finita?

No, la Germania Ovest non vuole arrendersi, entra Rudi Voller che prima propizia con un assist l’1 a 2 di Rumenigge, e poi pareggia di testa in seguito a un calcio d’angolo. L’Argentina barcolla, ma è solo un momento: il tempo di dare, due minuti dopo il pari tedesco, la palla a Diego.

Che si ricorda che il calcio è un gioco ANCHE di squadra, lancia la palla genialmente in un corridoio dove si inserisce Burruchaga, che corre inseguito da un Brehme sfinito, resiste, supera il portiere con un tocco sotto. 3-2.

L’Argentina è Campione del Mondo, Diego Armando Maradona è il miglior giocatore del pianeta senza se e senza ma: se Pelé era stato la punta di diamante di una squadra comunque fortissima, Diego ha vinto praticamente da solo, con le sue giocate ma anche con il suo enorme carisma, con la sua capacità di esaltare i compagni.

Perché Maradona non è stato solo il miglior calciatore di sempre. È stato anche un grandissimo uomo, con problemi personali gravi che però non hanno danneggiato nessun altro che lui: con i compagni ha sempre avuto un rapporto splendido, è sempre stato umile e disposto ad aiutare, non ha mai scordato le sue origini umili, quelle strade polverose ai confini del mondo.

È stato l’eroe del popolo, per gli argentini e per i napoletani, che non a caso gioirono delle sue vittorie come se fossero loro. Più che un eroe un anti-eroe, sempre dalla parte del più debole, pronto a fare la differenza, ad essere il leader degli emarginati e a capovolgere i pronostici: due Scudetti, una Coppa Italia e una Coppa UEFA con un Napoli che prima di lui non aveva mai vinto niente, il già detto Mondiale con una Nazionale che poggiava solo su di lui.

Se ne andrà dall’Italia nella polvere del doping, della droga, morirà e rinascerà più volte, sarà usato dalla FIFA e poi scaricato perché troppo scomodo e dividerà sempre gli animi di quei tifosi che non sapranno distinguere tra l’uomo (comunque, a detta di chi scrive, grandissimo) e il campione.

Perché per chi ne è capace, di capire che nessuno può giudicare un uomo per scelte personali sbagliate e che comunque sono sempre e soltanto ricadute su di lui, non ci sono dubbi: Maradona non ha giocato a calcio, MARADONA E’ STATO IL CALCIO, e nessun altro potrà mai prenderne il posto.

Nessuno sarà capace di essere grande come è stato lui, leader dentro e fuori dal campo, fuoriclasse, assist-man e goleador divino. Irraggiungibile Diego, che nell’estate del 1986, vincendo il Mondiale insieme all’idolo di infanzia Bochini, da lui stesso voluto in rosa, già diventa leggenda vivente realizzando il suo sogno di bambino, quando avvicinato da un reporter della “TV-verità” in voga all’epoca aveva dichiarato di avere un sogno. Anzi, due.

Giocare con la Nazionale e vincere la Coppa del Mondo. In quei cinque minuti di televisione, a pensarci bene, quel bambino di dieci anni stava profetizzando quella che sarebbe stata la storia del calcio. Un calcio che prima di Maradona era una cosa e che dopo di lui è tornato ad esserlo, ma che in quegli anni è stato come il giocattolo di un Dio.

Un Dio con la maglia numero 10.

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