Il calcio e la politica sono due cose molto diverse che però, nel corso della storia, hanno avuto numerosi incroci. I più famosi regimi del mondo hanno sempre visto infatti il calcio come un mezzo di propaganda, interferendo con esso. Queste sono quattro storie in cui la politica è entrata prepotentemente, spesso tragicamente, nella vita dei calciatori.
Mathias Sindelar, la “Cartavelina” che non si piegò al Nazismo
Nato nei primi anni del ‘900 in quello che era l’Impero Austro-Ungarico, trasferitosi con la famiglia pochi anni dopo a Vienna, Sindelar impara a giocare per strada con un pallone di stracci. Il padre muore nella Grande Guerra, ed è il calcio a salvarlo dalla fabbrica: il suo talento viene notato dalla locale squadra dell’Hertha Vienna, con la quale esordisce a 17 anni.
Gli esordi sono molto promettenti, ma a vent’anni si infortuna gravemente: lesione del menisco, che a quei tempi significa carriera finita. Così non è, e grazie ad un luminare austriaco e ad una ginocchiera elastica che lo accompagnerà in ogni partita, torna a giocare.
Passa all’Austria Vienna, ed esplode: vincerà un campionato, due Mitropa Cup e ben cinque Coppe d’Austria. In Nazionale trova la sua consacrazione definitiva, fulcro della manovra elegante e precisa di quella squadra che passa alla storia come il “Wunderteam“, la squadra delle meraviglie di cui è il leader riconosciuto.
Quando la Germania nazista invade l’Austria “Cartavelina” (così chiamato per la sua figura esile ed eterea) ha 35 anni e rifiuta di giocare nella sua “nuova Nazionale”: ufficialmente per l’età avanzata e per gli acciacchi conseguenti, ma in molti supporranno per protesta contro il regime nazista. Significativo è l’ultimo incontro giocato con l’Austria, contro la Germania in quella che doveva essere nella propaganda tedesca “la partita della riunificazione”.
Gli austriaci sembrano non impegnarsi troppo, ma negli ultimi minuti vincono grazie a due fiammate di Sindelar e dell’amico Sesta, che oltretutto festeggiano provocatoriamente sotto la tribuna dei gerarchi, alzando il pugno chiuso invece che con il braccio teso come dovrebbe.
Tra mito e realtà
Appare come spettatore durante la finale del Mondiale di quell’anno, scatenando la folla presente che alla sua vista intona la marsigliese e che lo erge a simbolo della lotta al nazismo. Muore in circostanze misteriose a Milano, appena sei mesi dopo, nel tardo gennaio del 1939.
Qualcuno dice avvelenato da una stufa malfunzionante, ma in molti sospettano subito che dietro ci sia il nazismo: del resto viene seppellito in fretta e furia senza troppe analisi, e insieme a lui la sua compagna, l’italiana di orgini ebraiche Camilla Castagnola.
In suo onore il poeta austriaco Friederich Torberg scrive “Sulla morte di un calciatore”, dove ipotizza che “Cartavelina” si sia suicidato per via dell’annessione dell’Austria alla Germania. Un finale amaramente poetico per rendere giustizia al più grande calciatore austriaco di sempre ed uno dei più grandi della sua epoca. Forse non del tutto accurato, come spiego in questo articolo che smonta i falsi miti della sua storia, ma il cui successo rende chiaro quanto fortunatamente l’uomo voglia ancora oggi credere nella bellezza e nella purezza.
Eduard Streltsov, il “Pelè russo” confinato in un gulag
Talento precocissimo, Streltsov è una punta completa dotata di fisico, tecnica e intelligenza tattica che brucia le tappe in modo impressionante.
A 13 anni surclassa già avversari di qualche anno più grandi, a 17 fa il suo esordio nella massima serie russa giocando tutte le gare in quella che sarà la squadra della sua vita, la Torpedo Mosca. Nello stesso anno gioca anche la sua prima gara in Nazionale, segnando una tripletta contro la Svezia.
È un ribelle, Streltsov, porta i capelli alla occidentale, ama godersi la vita e odia le regole della rigida società sovietica: è un esempio pericoloso per i molti giovani fans del calcio, e inoltre rifiuta i continui tentativi della federazione di trasferirlo nel CSKA Mosca, la squadra del KGB.
Una sera, ubriaco, si lascia andare ad un giudizio poco lusinghiero su una ragazza presente ad una festa con un amico: “preferirei essere impiccato che sposare quella”, dice. Peccato che “quella” sia la figlia di Ekaterina Furtseva, la prima donna ad entrare nel Partito in Unione Sovietica, che venuta a saperlo se la lega al dito.
Qualche tempo dopo, poco prima che la Nazionale parta per i Mondiali del 1958 in Svezia, Streltsov e due compagni vengono arrestati: l’accusa è di aver stuprato, ad una festa, tale Marina Lebedeva. Ci sono, però, solo poche e vaghe prove di quanto accaduto.
Niente di serio, insomma. Gli uomini del KGB convincono Streltsov a firmare la confessione, dicendogli che vogliono solo archiviare il caso velocemente in modo da farlo partecipare al Mondiale, e che non rischia niente in quanto è una celebrità del calcio.
Eduard gli crede, vuole giocare ai Campionati del Mondo, è una delle stelle acclamate della squadra, perché dovrebbe temere qualcosa? È una bugia, e subito dopo la firma il giovane e ingenuo Streltsov, che veniva definito dal Partito “un pericoloso esempio per i nostri giovani dei mali del capitalismo”, viene condannato a 12 anni di lavori forzati in un Gulag.
Il ritorno al calcio e la morte precoce
Ne uscirà dopo 5, e dopo altri 2 potrà tornare a giocare a calcio (complice un cambio della guardia in politica, con Breznhev che subentra a Krusciòv) sempre nella sua Torpedo Mosca in compagnia di un altro campione, Valerij Voronin, apparentemente più inquadrato ma in realtà malinconico e irrequieto quanto lui.
Per la cronaca la Nazionale, che ha deciso di privarsi del suo talento, ai Mondiali del 1958 sconfiggerà solo l’Inghilterra (devastata dalla tragedia occorsa al Manchester United, che in uno schianto aereo ha perso l’intera squadra, spina dorsale della Nazionale) e uscirà sconfitta proprio dalla Svezia futura finalista, la stessa squadra a cui Streltsov aveva rifilato tre gol, e a nulla varranno i prodigi del portiere Jascin.
Anche se indebolito dalle privazioni patite in prigione, la classe è sempre cristallina: si sposta indietro, in campo, passando dal ruolo di punta a quello di suggeritore, ed in questa veste trascina la squadra al titolo, il secondo della sua storia – il primo lo avevano vinto i compagni pochi anni dopo il suo internamento, in suo onore.
Con il tempo tornerà a giocare, ultratrentenne, anche con la Nazionale, dove tuttora è il quarto giocatore di sempre per numero di reti. Un traguardo impressionante, se si pensa che nella parte migliore della sua vita, dai vent’anni e per otto anni, non ha potuto giocare a calcio. In Russia ancora oggi il colpo di tacco viene chiamato “lo Streltsov” in suo onore, dato che era un colpo che usava spessissimo e con ottimi risultati.
Muore nel 1990, il giorno dopo il suo 53° compleanno, per un cancro alla gola causato dal cibo contaminato consumato in prigionia. Molti anni dopo Marina Lebedeva, la donna che secondo il KGB lui avrebbe stuprato, verrà vista depositare fiori sulla sua tomba. In suo onore la Torpedo Mosca ha eretto due statue.
Il suo nome avrebbe potuto essere inserito nella lista dei grandi del calcio, ma la politica ha voluto diversamente e così è stato sprecato “il più grande talento calcistico sovietico di sempre fuori dai pali”, come è stato chiamato dal grande scrittore di calcio Jonathan Wilson.
L’imbattibile Dinamo Berlino, la squadra che doveva vincere sempre
Con la divisione della Germania seguita alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ogni squadra calcistica della parte Orientale viene acquisita da un apparato dirigente del Partito Comunista. Alla Stasi, la Polizia Segreta di Stato, tocca nel 1966 la Dinamo Berlino, dove vengono forzatamente trasferiti in blocco tutti i migliori calciatori della miglior squadra dell’epoca, la Dinamo Dresda.
Un espediente già utilizzato anni prima per l’Hansa Rostock, che aveva vinto un campionato prelevando in blocco nella notte i giocatori della squadra allora prima in classifica. L’affermazione non è però immediata, perché il calcio rimane comunque imponderabile – e comunque uno degli ultimi interessi nello sport da parte del regime – e quindi ci vogliono degli anni per arrivare al successo.
Che infine arriva grazie a numerosi altri trasferimenti forzati, arbitraggi clamorosamente compiacenti e minacce più o meno velate di ritorsione in caso di ribellione: a farne le spese è Lutz Eigendorf, fuggito all’Ovest e che per questo sarà punito con la morte. Anche nel calcio, come nella vita di tutti i giorni, il sogno comunista lascia ben presto il posto alla violenza della Stasi, che deve vincere. E vincerà.
Arrivano ben 10 titoli nazionali consecutivi, alcuni colti tra autentiche rivolte popolari, e la squadra rappresenta la Germania dell’Est anche all’estero, dove però rimedia spesso magre figure vista l’assenza del clima compiacente che respira nel proprio campionato.
Cade il Muro di Berlino, cade il Comunismo e cade, inesorabilmente, anche la Dinamo Berlino: priva della Stasi e del suo potere politico ed economico, la squadra scivola quasi immediatamente nelle serie inferiori da dove non riesce più a risalire. Nel 2001 arriva anche un fallimento, e oggi arranca in quinta serie: i giorni dei falsi trionfi, ormai, lontani come quelli della falsa speranza in un mondo migliore promessa dal regime.
“El Lobo” Carrascosa, la bandiera dei desaparecidos
Jorge Carrascosa era un terzino destro argentino piccolo e arcigno: non baciato dal talento cristallino dei veri campioni, rimediava grazie alla grinta e alla tenacia che gli erano valsi il soprannome di “El Lobo“, il Lupo, che indicava anche un carattere forte ed indipendente. Aveva giocato due stagioni con il Banfield, all’esordio, e altre due con il Rosario Centràl, prima di trasferirsi nella squadra della sua vita, l’Huracàn di Parque Patricios, un sobborgo di Buenos Aires.
Pur privo di particolare talento, come detto, si era presto imposto nel suo ruolo grazie alla tenacia, alla continuità di rendimento e a una straordinaria quanto naturale leadership, diventando un punto fisso della Nazionale. Sarebbe stato addirittura il capitano dell’Argentina nei Mondiali che gli albi-celeste si apprestavano a disputare in casa, nel 1978.
Era un Paese, l’Argentina di quegli anni, guidato dal regime militare dei fondomonetaristi capeggiato dal Generale Jorge Videla: un Paese dove regnava il terrore e dove i dissidenti, o anche solo i presunti dissidenti, venivano arrestati un giorno e non tornavano mai più. Coloro che facevano questa fine erano noti come i “desaparecidos”, gli scomparsi, perché nessun certificato ne indicava la morte e nessun corpo rimaneva ai familiari da piangere o seppellire.
Molto spesso la loro vita terminava in fucilazioni sommarie, molto più spesso in voli nell’oceano, gettati da elicotteri che partivano carichi di prigionieri e tornavano vuoti. In molti sapevano, ma fingevano di non sapere: i calciatori dell’Argentina non facevano eccezione, e così purtroppo anche i vari Paesi partecipanti alla Coppa del Mondo, che lodavano l’ospitalità dei militari e giocavano le partite del Mondiale mentre, a pochi metri di distanza, in quei campi le morti continuavano incessantemente.
L’Argentina vinse quei Mondiali del 1978, sospinta tanto dal regime quanto da una squadra grandissima sul campo, moralmente però incapace di ribellarsi ad un regime tanto spietato. I protagonisti furono gli attaccanti Mario Kempes (capocannoniere del torneo) e Leopoldo Luque; il fantasista Daniel Bertoni; i difensori Tarantini e Passarella.
Eppure in mezzo ai campioni un assenza fece rumore: il capitano di quella squadra, Jorge Carrascosa, l’uomo che avrebbe dovuto ricevere la Coppa dalle mani insanguinate di Videla e alzarla di fronte ad un popolo terrorizzato e costretto a tacere, non c’era.
Poco prima dei Mondiali aveva annunciato il suo ritiro dal calcio, a soli 30 anni, risultando così non convocabile per la competizione. “Il Lupo” non spiegò mai il suo ritiro prematuro, ma per tutti fu ovvio che, per tempistiche, ciò era dovuto ad una presa di coscienza.
Carrascosa non avrebbe mai voluto ritirare la Coppa dalle mani di un uomo responsabile di così tante morti, tra cui quella di diversi suoi stessi conoscenti. Carrascosa non avrebbe mai guidato una Nazionale sostenuta da un regime così violento e totalitario.
Di lui non si trovano che poche notizie, oggi. Ancora meno immagini. Non ha mai parlato della sua scelta di allora, ha sempre evitato i riflettori anche dopo che, per fortuna del suo popolo, il regime di Videla è caduto. Jorge Carrascosa non è un nome noto nel calcio mondiale, almeno non quanto meriterebbe.
Jorge Carrascosa, nel 1978, nell’Argentina dei militari, dei genocidi e dei desaparecidos, non ha vinto la Coppa del Mondo. Eppure, colui che veniva chiamato “El Lobo” per via del suo carattere forte e indipendente, probabilmente è stato, ai Mondiali del 1978, il solo autentico Campione.
SITOGRAFIA:
- Molinelli, Edoardo (05/07/2016) Cuore di Lupo – Minuto78